I giudici a questo punto ci mettono un po’ a decidere cosa fare. Sono tuttora convinti che Campanella stia simulando, ma è anche vero che ha già resistito al supplizio della corda; sarà il caso di proseguire? E se sì, con che tipo di tortura? Decidono di usare la mano particolarmente dura e scelgono la c.d. veglia. Si tratta di una tortura di inenarrabile atrocità: la corda e il polledro alternati, con brevissimi intervalli, per ben 40 ore, tra l’altro impedendo al suppliziato di dormire. Nessuno, neanche i criminali più incalliti, era in grado di resistere a una cosa del genere, ragion per cui era un metodo ormai caduto in disuso. Di certo, pensano i giudici, non avrebbe resistito Campanella, che aveva confessato già dopo la semplice tortura del cavalletto. Si comincia quindi la mattina del 4 giugno 1601, verso le 7 di mattina. Quando i giudici gli intimano di parlare, altrimenti sarebbero stati guai (“habebit multa mala”), risponde: “cavalli bianchi”. Continuando imperterrito a dire assurdità, si dà inizio alla tortura della veglia. Lo spogliano e lo legano sopra il cavalletto.

Nuovamente, Campanella si lamenta, grida, piange, chiede aiuto, straparla; a un certo punto smette di parlare e rimane a lungo a capo chino. Non risponde neanche quando gli chiedono se vuole essere riportato giù; chiede solo di andare alla latrina. Da quel momento in poi, rimane praticamente in silenzio, salvo chiedere acqua da bere e lamentarsi ogni tanto (a un certo punto esclama incomprensibilmente “Cicco Vono l’ammazzò”) e rispondere a alcune domande elementari sul suo nome, la sua origine e la sua famiglia. Spunta il giorno, e Campanella continua a tacere. Sembra sul punto di svenire (e vorrei anche vedere); lo riportano alla latrina, poi gli fanno bere delle uova e del vino. Sembra riaversi, e lo rimettono alla tortura, ma continua a rimanere in silenzio: la tattica vincente. Siamo ormai a mezzogiorno del 5 giugno; i giudici fanno chiamare fra Dionisio Ponzio, e ordinano a questo di parlare a Campanella e convincerlo a rispondere alle domande; Campanella dice che lo farà. Così lo calano di nuovo giù, gli danno qualcosa da mangiare e da bere, e dopo un’oretta lo fanno sedere e lo esortano a ravvedersi e a rispondere. Ma Campanella rimane ostinatamente sulla sua linea; i giudici quindi lo fanno riappendere.

Siamo però ormai prossimi al termine della 36ma ora, cioè alla fine della veglia; visto che Campanella continua a mantenere il silenzio, lo tirano giù, gli risistemano di nuovo le ossa slogate, e lo rimandano nella sua cella. A questo punto, mentre l’aguzzino lo trasporta in cella (“in collo” perché Campanella non era in grado di camminare dopo le torture), c’è uno degli squarci più belli sulla mentalità e sul carattere di Campanella. Questo aguzzino, che si chiama Giacomo Ferraro di Trani, viene interrogato nel mese di luglio dai giudici, perché ha qualcosa da dire. Riferisce infatti che, nel tragitto verso la cella, più o meno a metà strada, fra Tommaso gli disse queste parole o simili:
Che si pensavano, che io era coglione, che voleva parlare?
Ma lo stesso aguzzino osserva che “a queste parole non ci fu nessuna persona presente che l’avesse intese”. E siccome per il diritto canonico unus testis, nullus testis, un singolo testimone non è sufficiente, queste parole di feroce determinazione e di orgoglio sprezzante, mentre fanno capire ai giudici che Campanella ha effettivamente simulato, rimangono inutilizzabili giuridicamente. Campanella è ormai salvo, avendo resistito per ben due volte alla tortura: è, ai fini legali, pazzo, e dunque non può essere condannato a morte. Ha vinto, superando una tortura terrificante, a cui cedevano anche i più forti. In compenso, a seguito della veglia, rimarrà sei mesi circa sospeso fra la vita e la morte.
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