Il Papa rifiuta l’accordo stragiudiziale e decide per la condanna di Galileo.

Possiamo a questo punto immaginare lo stato d’animo di Galileo quando, il 21 giugno 1633, viene convocato di nuovo dall’Inquisizione. Richiesto se abbia qualcosa da dire, risponde scoraggiato: “Io non ho da dire cosa alcuna”. Gli chiedono se abbia tenuto o continui a tenere l’opinione copernicana. Galileo dice che, fin dal momento in cui Bellarmino gli aveva comunicato il decreto dell’Indice del 1616, “cessò in me ogni ambiguità, e tenni, sì come tengo ancora, per verissima e indubitata l’opinione di Tolomeo, cioè la stabilità della Terra e la mobilità del Sole”. Quanto al Dialogo, ribadisce che in esso non ha sostenuto la verità del copernicanesimo, ma ha voluto solo dimostrare che, dal punto di vista fisico, non ci sono ragioni decisive né per il sistema tolemaico né per quello copernicano, sicché bisogna rimettersi alla Chiesa.

Gli inquisitori gli dicono: non ti crediamo, perciò, o confessi la verità, oppure saremo costretti a usare contro di te gli opportuni rimedi – cioè, la tortura. Qui Galileo, esasperato, ha un guizzo del suo ben noto caratterino, e risponde più o meno: le cose stanno come vi ho detto, poi fate un po’ come vi pare (“io non tengo né ho tenuta questa opinione del Copernico dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi lasciarla; del resto, son qua nelle loro mani, faccino quello gli piace”).

Che fare a questo punto? Il Papa aveva chiaramente detto di minacciare e, se necessario, applicare la tortura. Ma gli inquisitori, in coscienza, non se la sentono. Siamo quindi a uno stallo: Galileo non ammette di aver tenuto l’opinione eretica, quindi è solo un sospetto di eresia. D’altro lato, Galileo ha già promesso di esser disposto a fare pubblica abiura. Il Collegio, con molto buon senso, conclude che così può bastare. Quindi Galileo viene rimandato via, sempre nel palazzo dell’Inquisizione.

Il giorno dopo, nella Sala capitolare del convento domenicano adiacente alla chiesa di Santa Maria sopra Minerva, viene letta in italiano, a Galileo inginocchiato, vestito col saio bianco dei penitenti e con un cero in mano, la sentenza (sottoscritta da sette inquisitori su dieci): Galileo è “veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch’ il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente ad occidente, e che la terra si muova e non sia centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un’opinione dopo esser stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura”. Per questo, deve abiurare questi errori. Dopodiché, resterà in carcere ad arbitrio del Sant’Uffizio e dovrà recitare per tre anni, almeno una volta a settimana, i sette salmi penitenziali.

Finita la lettura della sentenza, Galileo legge a sua volta la formula dell’abiura.

Il giorno dopo, il Papa lo autorizza a risiedere, loco carceris, nel palazzo dell’Ambasciatore di Toscana in Trinità dei Monti. Galileo rimarrà agli arresti domiciliari fino alla morte, cambiando, è vero, di luogo (prima Siena, poi Arcetri), ma sempre con gravi restrizioni (quanto al numero delle persone che poteva ricevere e ai permessi da ottenere per potersi spostare o anche solo per andare a passeggio). Nei giorni e mesi successivi, il fascicolo è pieno delle attività dei Nunzi apostolici volte a pubblicizzare la condanna e l’abiura. Pur non potendo occuparsi più di astronomia, Galileo continuò a studiare e scrisse un altro libro importantissimo, i Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze, che contiene alcune grandi scoperte di fisica. Il libro, prudentemente, venne pubblicato in Olanda, ufficialmente all’insaputa dell’autore; ma siccome nel libro ovviamente il copernicanesimo non veniva abbordato nemmeno alla lontana, non ci furono conseguenze.

Infine Galileo, ormai cieco, morì l’8 gennaio 1642. Il papa e la Chiesa continuarono a mostrare la loro ostilità; perfino il monumento funebre che gli voleva erigere il Granduca fu negato (“non essere conveniente fabbricare un sepolcro per il cadavere del detto Galileo, penitentiato dal Tribunale del S. Uffizio e morto durante la sua penitenza”). La meschinità e l’accanimento della Chiesa continuarono per un altro secolo, dato che il monumento a Galileo in Santa Croce fu permesso soltanto nel 1737, e il Dialogo fu levato dall’Indice solo dopo il 1820.

Questa è però un’altra storia, altrettanto interessante: quella della fortuna di Galileo. Ma è lunga e ne parleremo, forse, un’altra volta.

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