La prima udienza davanti al Sant’Uffizio si chiude in sostanza con un nulla di fatto.
Nei giorni che seguono, possiamo immaginare cosa girava nella testa degli inquisitori. Certo, Galileo aveva, più o meno, ammesso di aver ricevuto la notifica del precetto. Ma il precetto da solo, con tutti i dubbi che suscitava, non bastava per una condanna. E poi, già il semplice fatto che Galileo avesse potuto, sia pure previa revisione, pubblicare un libro che manifestamente trattava del copernicanesimo, dimostrava che il precetto non aveva una grande importanza. D’altra parte, però, il Papa era molto arrabbiato con Galileo, sicché qualcosa bisognava fare. Ma cosa?
Sappiamo che la questione fu molto dibattuta, perché sono rimaste delle lettere del Commissario che parlano delle “difficoltà quanto al modo di proseguire la causa et incaminarla a speditione”.
La difficoltà consisteva nel fatto che Galileo aveva negato un po’ troppo sfacciatamente cose che parevano evidenti, sicché, mentre era certo che Galileo avesse sostenuto e difeso la teoria copernicana, non era chiaro invece quale fosse stata la sua intenzione (il reato di eresia richiedeva appunto l’intenzione); e l’Inquisizione, per accertare l’intenzione, ricorreva alla tortura. Ma si poteva davvero torturare un uomo di settant’anni, e di salute compromessa, quando tradizionalmente l’Inquisizione non adoperava la tortura contro vecchi e malati? Per di più, Galileo era tonsurato, quindi (così dicono alcuni storici moderni) non sottoponibile a tortura. E infine, si parlava pur sempre di un personaggio non solo famoso in tutta Europa, ma pure protetto dal Granduca di Toscana e amico di metà della Curia, incluso il Papa stesso. Papa che, non ce lo dimentichiamo, era lui stesso responsabile di gran parte del pasticcio relativo alla pubblicazione del Dialogo.
Nel frattempo, all’insaputa di Galileo, l’Inquisizione aveva chiesto a tre teologi cosa pensassero del Dialogo: vi si sosteneva davvero la teoria copernicana, e se sì in che modo, ipoteticamente o assolutamente? Scrivendolo, Galileo aveva o no violato il precetto del 1616? I tre fecero pervenire i loro pareri il 17 aprile, pochi giorni dopo l’interrogatorio di Galileo. In sostanza, erano tutti d’accordo: nel Dialogo si sosteneva e difendeva, contro il precetto, la tesi che la Terra si muove e il Sole sta fermo. Secondo uno dei tre, anzi, Galileo non solo insegna e difende la tesi che il Sole stia fermo al centro dell’universo, e che intorno ad esso si muovano i pianeti e la Terra, ma ne è pure fermamente convinto.
Il che vuol dire che dall’accusa di aver violato un precetto – accusa di scarsa portata – si passava a quella, ben più grave, di eresia. Ma certo il problema politico restava: come fare a condannare per eresia uno che, come Galileo, non solo ha sottoposto il testo alla censura ecclesiastica e ha a lungo negoziato fin le virgole del testo prima di pubblicarlo, peraltro col permesso dell’Indice, ma è pure il protetto del Granduca nonché un vecchio amico del Papa e di metà del collegio cardinalizio (oltre a essere celebre in tutta Europa)?
Il Commissario Maculano ha a questo punto un’idea. Perché non proporre a Galileo un patteggiamento? Lui si confessa colpevole, e in cambio il Collegio gli applica una pena ridotta. Così Maculano suggerisce che lo si autorizzi a “trattare estraiudicialmente col Galileo, a fine di renderlo capace dell’error suo e redurlo a termine, quando lo conosca, di confessarlo”.
La prima reazione del Sacro Collegio è negativa (“parve, a prima faccia, la proposta troppo animosa”), ma poi la Congregazione (il cui segretario era il nipote del Papa) si fa convincere e autorizza Maculano a cercare una intesa con l’imputato.
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