La sentenza vera e propria, cioè la condanna da irrogare a Maria, spettava a Elisabetta. Questa, però, prima di decidere, volle “coprirsi”, come era sua prassi, col consenso del Parlamento. Quest’ultimo era, come dire, già parecchio consenziente di suo. Già il 12 novembre presentò una patriotticissima petizione alla Regina: era loro “imperioso dovere” studiare quale fosse l’origine di tante congiure tramate da anni; ed erano giunti alla conclusione che essa fosse da ravvisare nella regina di Scozia. E siccome lei e i suoi accoliti “non smetteranno mai di perseguire questi insidiosi disegni di tradimento”, anche per via della “troppa generosità e indulgenza che Vostra Maestà ha usato verso di lei”, erano del parere che “se la regina di Scozia dovesse sfuggire ora alla pena di morte che ha giustamente meritato per i suoi esecrabili delitti e tradimenti, la regale persona di Vostra Grandezza sarebbe minacciata da molte altre cospirazioni che non potranno essere né saranno più previste o scoperte”. Insomma, “non esiste in pratica alcun mezzo per garantire la sicurezza di Vostra Maestà, all’infuori di una giusta e rapida esecuzione della regina di Scozia”. Non farlo peraltro “rischierebbe di attirare su di noi il severo biasimo e la punizione di Dio Onnipotente”.
Il gioco delle parti - che costituiva così grande parte dell’ars regnandi di Elisabetta -imponeva che lei si mostrasse invece titubante, non solo per poter poi dire di esser stata costretta a fare quel che in effetti già voleva fare a causa delle insistenze del Parlamento, ma anche perché ragioni diplomatiche serie le imponevano di muoversi con cautela. Perciò rispose al servile e ossequioso Parlamento con non minore untuosità e ipocrisia. Ringraziava Dio per l’”affettuosa benevolenza” dei suoi sudditi. Affermava di essere “addolorata” vedendo “una persona del mio stesso sesso, del mio stesso rango, della stessa dignità e della stessa razza e che inoltre  è legata a me da stretti vincoli di sangue, macchiarsi di un così grave delitto”. Protestava di avere sempre avuto la più ingenua fiducia in Maria. Anche dopo aver scoperto la congiura, se si fosse trattato solo della sua sicurezza personale anziché di quella del regno, avrebbe “con gioia” perdonato Maria. “Ma vi è di più, io farei volentieri il sacrificio della mia vita, se la mia morte potesse rendere ancora più prospere le condizioni dell’Inghilterra e procurarle un Sovrano migliore di me”. Infatti, aggiungeva, “non ho grandi motivi per amare la vita o temere la morte”. Andava avanti a lungo su questo tono. Aveva comunque deciso di procedere legalmente contro la traditrice, seguendo la procedura prevista nel “recente Atto”. Comunque trovava ancora modo di lamentarsi: “Con questo recente Atto del Parlamento, voi mi avete messo in una penosa situazione, obbligandomi a ordinare la morte di una principessa mia stretta consanguinea.” Ritornava quindi alla riconoscenza per la sollecitudine e l’affetto del Parlamento per lei, per cui “mi sentirò tanto più strettamente impegnata, dall’obbligo che ho verso di voi, a difendere i vostri interessi”. Alla fine, in mezzo a tante chiacchiere ipocrite, l’unica informazione reale: dato che la questione è tanto grave “spero che non vi aspettiate da me una decisione immediata. E’ mia abitudine infatti, anche per casi di minore gravità, deliberare  a lungo sulle soluzioni che debbo prendere”.  
La Regina in Parlamento
Il tempo passava e Elisabetta non decideva. Anzi un paio di settimane dopo, fece chiedere al Parlamento di escogitare un modo per risparmiare la vita di Maria senza pregiudicare la sicurezza sua e del regno. Il lord cancelliere e lo Speaker dei Comuni riassunsero “l’opinione unanime” del Parlamento: non c’era mezzo di risparmiare Maria e garantire contemporaneamente la sicurezza di Elisabetta e del regno. Le ricordano il responso del papa sul caso di Corradino di Svevia: Vita Conradini, mors Carolo, mors Conradini, vita Carolo. Quindi supplicavano Elisabetta di conceder loro la testa di Maria.
Ma con un nuova risposta del 2 novembre, Elisabetta continua a mostrarsi incerta,  a lamentarsi che la sua sicurezza debba risiedere nella morte di un’altra persona, a protestare “vivo dolore” nel “vedermi costretta a mostrarmi crudele verso una così grande principessa”. Così dichiara che sta pensando a cercare, se possibile, un modo di risparmiare la vita a Maria. Prega il Parlamento di pazientare di fronte a “una risposta che non può dirsi tale”, “una risposta che non risponde nulla”; cita Alcibiade che domandava all’amico di non rispondergli “se non dopo aver recitato tutto l’alfabeto”, e dichiara che anche lei “non ha mai voluto prendere decisioni bruscamente e senza riflettere”. 
Per quanto pretendesse riflettere, però, una cosa l’aveva già decisa. Il 19 novembre alcuni consiglieri della Corona partirono per il castello di Fotheringay, per annunciare a Maria l’esito del processo e dirle, con franchezza, che c’era poco da sperare nella grazia e offrirle, per prepararsi al trapasso, l’assistenza di un prete anglicano. Questo darà origine a un lungo e amaro contenzioso, visto che Maria era cattolica e rifiutava un prete protestante, e Elisabetta dal canto suo non poteva consentire che un prete di una confessione vietata andasse pubblicamente a assistere Maria. Il 21 Poulet andò nell’appartamento di Maria tenendosi a sfregio il cappello in testa (davanti a una regina bisognava ovviamente toglierlo) e fece togliere il baldacchino, ultima insegna regale rimasta. Maria reagì con una notevole freddezza e presenza di spirito (a quanto risulta da una lettera che scrisse giorni dopo al vescovo di Glasgow, ribatté che lei era sempre una Regina, che il suo titolo le veniva da Dio e non dagli uomini e solo Dio poteva toglierglielo, e che il potere di Poulet e degli altri su di lei “era paragonabile soltanto a quello che possono esercitare i briganti nel fondo di un bosco sul più giusto dei principi o dei giudici”, cosa che non piacque affatto a Poulet.)
Maria
Maria era già oltre queste piccolezze; di qui in avanti si preparerà solo a morire con ogni dignità regale, e è giudizio universale che ci sia perfettamente riuscita: tutte le lettere che scrisse e le cose che disse e fece fino alla decapitazione sono improntate ai sentimenti più nobili, e risultano commoventi ancora oggi. Intanto scrisse al papa, spiegando la difficoltà di avere un prete cattolico presso di lei e quindi invocando la sua assoluzione per così dire a distanza; preoccupandosi per i suoi servitori, inoltre, pregava il papa di far sì che il Re francese utilizzasse la sua dote per pagare i suoi debiti e gli stipendi dei “miei poveri desolati servitori” oltreché per far dire messe in suffragio della sua anima e di quelle dei correligionari morti nelle persecuzioni. Aggiunge che vuole che i suoi diritti (per quel che valevano), nel caso che suo figlio Giacomo si ostinasse a permanere nell’eresia protestante, passino al Re di Francia. A Mendoza scrive che ha ricevuto “con gioia” la notizia della condanna, perché considera “una fortuna” versare il suo sangue per la vera religione.
Enrico III, Re di Francia. Notate l’orecchino con perlazza.

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