La regina di Scozia lesse la missiva di Elisabetta; Maria atteggiò il volto a una espressione “di regale dignità” e sostanzialmente rispose: Non è vero nulla; anzi, più volte ho avvertito mia sorella la Regina dei pericoli che correva; inoltre sono prigioniera da tanti anni, e così malandata da “aver perduto l’uso delle membra”. Dopo altre lamentele sul comportamento di Elisabetta, arrivò al nocciolo della questione (con ammirevole lucidità): è strano che la Regina mi ordini di comparire a un processo, quasi fossi una sua suddita; ma io sono “Regina nel pieno dei miei diritti e non farò nulla che possa pregiudicare la mia regale maestà, quella di altri principi del mio stesso rango e dignità o quella di mio figlio”. Inoltre, aggiunse (piuttosto ragionevolmente) che “la maggior parte delle leggi e degli statuti d’Inghilterra mi sono ignoti; mi mancano i consiglieri e ignoro del tutto chi sarà considerato mio pari per potermi giudicare. Le mie carte e i miei appunti mi sono stati portati via e nessuno osa presentarsi per assumere la mia difesa”. Infine dichiarò di essere innocente e aggiunse: “Non ho instigato nessuno contro di lei [Elisabetta] e intendo che mi si condanni soltanto in base alle mie parole o ai miei scritti; ora, non si possono produrre né le une né gli altri contro di me. Tuttavia, non nego di avere raccomandato la mia causa a dei principi stranieri”.
La linea difensiva scelta da Maria, come si vede, era semplice e chiara: non solo non era soggetta alla legge inglese, ma quest’ultima le era anche sconosciuta; in più, non aveva difensori, né modo di verificare alcunché nelle sue carte, che le erano state sequestrate. Si rifiutava di accettare comunque come prove documenti non scritti da lei (e qui faceva una mossa astuta, dato che già sapeva che gli originali delle lettere da lei firmate erano stati distrutti), e infine faceva un sola, ma innocua, ammissione.
Il giorno dopo, i commissari ritornarono con una bella copia della sua dichiarazione del giorno prima, gliela lessero e gliela fecero firmare. Maria lo fece, ma aggiunse un punto fondamentale: Avevo dimenticato di aggiungere che io non sono venuta in Inghilterra per mettermi sotto la protezione della Regina; sono venuta in Inghilterra per cercarvi aiuto, ma invece sono stata fatta prigioniera e tale sono stata tenuta fino ad oggi, “e non ho dunque potuto godere della protezione o dei vantaggi delle leggi inglesi. Anzi, nessuno finora ha mai potuto spiegarmi di quale natura fossero quelle leggi!”
Maria.
Il pomeriggio, una delegazione tornò da lei, stavolta accompagnati da giuristi esperti nel diritto civile e in quello canonico: questi provarono (ma senza successo, anche perché avevano palesemente torto) a convincerla che la lettera di Elisabetta e l’Atto del 1585 conferivano alla commissione tutti i poteri occorrenti per processarla; quindi la supplicarono di collaborare, altrimenti l’avrebbero processata senza ascoltarla. Maria rispose con poche e dignitose parole: “Io non sono suddita, ma regina, e preferirei mille volte morire, piuttosto di riconoscermi soggetta ad alcuno. Ammettendo questo, pregiudicherei la mia dignità regale, e soprattutto mi riconoscerei vincolata da tutte le leggi inglesi, persino in materia di religione.” Si disse tuttavia disposta ad ascoltare, “davanti a un parlamento libero e al completo”, tutto ciò che volessero, ma temeva che quella particolare procedura fosse stata escogitata “al solo scopo di dare alle cose l’apparenza di un processo giusto e legale, mentre io sono stata già preventivamente giudicata e condannata”.
Maria continuò ostinatamente su questa strada: non formulò alcuna opposizione ai nomi dei commissari, ma ripeté che faceva obiezione alla “legge” (non precisata, ma verosimilmente l’Atto del 1685) in base alla quale si pretendeva di processarla. Quando i commissari la pregarono di ascoltare come, secondo il diritto e l’equità, avessero eccome il potere di processarla, ella lo negò, e chiese “secondo quale diritto” intendessero procedere: quello civile o canonico? In questo caso, dichiarò, “bisognerà cercare dei giureconsulti a Pavia o a Poitiers o in altre università straniere, poiché in Inghilterra non ve ne sono di competenti”. Probabilmente il pugno di dottori in utroque jure presenti in sala non saranno stati lusingati… Poi Maria chiese che la sua protesta venisse allegata agli atti; ma i commissari rifiutarono, “poiché arrecava pregiudizio alla corona d’Inghilterra”. Maria protestò che non capiva come potesse recarle pregiudizio; in ogni caso, “se vorrete procedere contro di me basandovi sulla consuetudine inglese, dovrete produrre dei precedenti applicabili a casi analoghi, poiché la consuetudine come fonte del diritto si fonda innanzitutto su usi e casi particolari.” L’obiezione fa evidentemente riferimento al diritto comune inglese (common law), ed è molto forte: siccome quel diritto si basa sui precedenti, quale sarebbe il precedente che vi autorizza a processare una regina? Maria ha perfettamente ragione, il precedente non c’era. Ma i commissari non si prendono neanche la briga di rispondere: seguiremo il diritto comune d’Inghilterra, dicono, non quello civile né quello canonico, e comunque entrambi la obbligavano a comparire davanti ai giudici. E qui Maria replicò che “non rifiuto di ascoltare [le accuse], ma purché sia per via interlocutoria e non giudiziaria”. Maria, insomma, continua a rifiutare di accettare di sottomettersi a un processo. A una nuova insistenza, risponde che “non voglio offendere la memoria dei re di Scozia, miei antenati, riconoscendomi suddita della Regina d’Inghilterra… Non rifiuto di rispondere, ma ad una sola condizione: che io non sia ridotta al rango di suddita. Piuttosto di rispondere in qualità di incriminata, preferirei morire!” Un commissario le disse che, essendo accusata di aver tramato “la rovina e la morte della Regina d’Inghilterra”, il suo rango di regina non la avrebbe comunque dispensata dal risponderne.
E’ chiaro che si tratta di cavilli e sotterfugi, e che Maria ha ragione. I commissari però insistono, usando tutti gli argomenti possibili per convincere Maria a accettare di essere processata. Maria continua a non accettare “la recente legge cui fa menzione la vostra commissione”, cioè l’Atto del 1585. Il Tesoriere ribatte che, ciononostante, “domani apriremo il processo; e lo faremo anche se non vi presenterete e persisterete a rendervi contumace”. Maria gli rispose a brutto muso di pensare alla sua coscienza e al suo onore, e che pregava che Dio li ripagasse di quel che avrebbero deciso contro di lei. A quel punto la riunione si aggiornò.
Il giorno dopo i commissari tornarono da Maria, che li pregò nuovamente di accettare la sua protesta. I commissari le chiesero: ma se ci limitiamo a ricevere la vostra protesta e metterla per iscritto “senza che le sia attribuito alcun valore probante”, accettereste di comparire? A questo punto, Maria acconsentì: voleva comunque discolparsi dalle accuse.
Probabilmente questo fu un errore, visto che forniva alla illegale commissione di Elisabetta il pretesto per rivendicare il consenso di Maria al processo. Di fatto però non aveva altra scelta, visto che l’unica alternativa giuridicamente inattaccabile sarebbe stata quella di venire condannata lo stesso, senza nemmeno poter essere sentita dai commissari, cioè senza nemmeno poter far sentire la sua versione. Magari sarebbe stato meglio comunque (visto l’esito), ma la sua comprensibilissima disperazione spiega abbondantemente questa scelta.
Il processo cominciò poco dopo nella sala di udienza di Fotheringay. Ai due estremi, stava da una parte un trono per la Regina d’Inghilterra, sotto un baldacchino; di fronte, “un po’ più in basso”, stava un seggio per Maria; lungo i muri, dai due lati, stavano i commissari.
Il lord cancelliere aprì il processo. Maria protestò immediatamente, come in precedenza, dicharando che: era venuta in Inghilterra per avere gli aiuti che le erano stati promessi; invece, da quel momento era stata tenuta prigioniera; in ogni caso, non era una suddita inglese, ma una sovrana, “che per nessun motivo deve essere costretta a comparire dinanzi a dei giudici o a dei commissari, ma soltanto davanti a Dio, Giudice supremo… Tuttavia, mi presento ora davanti a voi per confutare le accuse di crimini che mi sono stati mossi”.
Il cancelliere ribatté, primo, che nessun aiuto le era stato promesso; secondo, che chiunque violava le leggi inglesi mentre si trova in Inghilterra, quale che fosse il suo rango o dignità, “è soggetto a quelle leggi e in virtù dell’atto del Parlamento menzionato dalla nostra commissione, può essere esaminato e giudicato”. L’obiezione di Maria veniva dunque rigettata, ma comunque messa agli atti.
Il Lord Cancelliere, Thomas Bromley
A quel punto il serjeant-at-law riassunse i fatti della congiura di Babington. Concluse accusando Maria di aver conosciuto, approvato e acconsentito alla congiura, promettendo il suo appoggio ad essa e di aver indicato il sistema e i mezzi da adottare.
Maria rispose: non conosco Babington; non ho mai né ricevuto lettere da lui né mai gliene ho scritte, e non ho mai tramato la rovina e la morte della Regina. “Per provare il contrario bisognerebbe produrre dei documenti firmati di mia mano.” Non aveva mai sentito parlare di questa cospirazione, né conosceva Ballard, tanto meno lo aveva mai aiutato, “ma ho saputo da certe persone che i cattolici d’Inghilterra erano duramente perseguitati; io stessa avevo scritto alla Regina per avvertirla e l’avevo pregata di avere pietà di loro”. Molti si sono offerti di aiutarmi, “ma io non ho istigato nessuno a commettere alcun delitto”; e del resto, prigioniera, “non avevo modo di sapere e neppure di sospettare a quali tentativi si accingevano”.
Maria insomma sta mentendo; probabilmente conta sull’assenza delle lettere originali e presumibilmente sulla fedeltà dei suoi segretari. Qui si vede come sia cruciale la disparità delle armi processuali: oltre a non avere un difensore, Maria non ha nemmeno accesso al fascicolo e quindi non sa nemmeno quali carte abbia in mano l’accusa. Va da sé che, quando anche si ammettesse che un tribunale inglese aveva giurisdizione su di lei, alla coscienza giuridica odierna basterebbe questa sola circostanza a invalidare l’intero processo. Ma naturalmente, questo c’è bisogno di dirlo solo a quei baggiani che parlano della Common Law come della culla del diritto e della procedura. Per tutti gli altri, non c’è bisogno di rimarcare come questo modo di procedere fosse del tutto aberrante ai nostri occhi, ma non a quelli di allora.
Comunque le lessero le parti delle confessioni di Babington che confermavano l’esistenza di una corrispondenza fra loro. Ma lei continuò a pretendere che si esibissero le sue lettere originali: ho avuto, disse, corrispondenza con un sacco di gente, ma non è che questo provi che io fossi a conoscenza dei loro “sciagurati progetti”.
Al che le lessero la lettera in cui Babington le esponeva il piano. Maria: può essere che lui l’abbia scritta, ma bisogna provare che io l’abbia ricevuta! Non posso mica essere condannata per delle colpe altrui.
Le lessero di nuovo altre parti delle confessioni di Babington. Ma Maria rimase ferma: Babington può confessare quello che vuole, “ma è pura menzogna che io abbia mai usato simili espedienti per fuggire.” E poi, aggiunse, è facile ai miei nemici impadronirsi dei miei cifrari, usarli e poi attribuirmi a torto quel che vogliono. A ulteriori contestazioni, aggiunse: Babington non ha mai ricevuto alcuna lettera da me.
Ovviamente a questo punto le leggono la sua lettera a Babington. Lei nega: non proviene da me! Ma ammette: “Ho fatto, è vero, ogni sforzo per recuperare la libertà, secondo la legge di natura, e ho sollecitato i miei amici a liberarmi… Tuttavia, quanto a me, non potrei mai acquistare il regno al prezzo della morte dell’ultimo degli uomini, e tanto meno di quello della Regina.” Poi, tornando alla facilità di falsificare le sue cifre, “temo che tutto questo sia opera di Walsingham, che spera di farmi morire”: aveva colpito nel segno. Walsingham, toccato sul vivo, si alzò per protestare: “Chiamo Dio a testimonio che, come individuo, non ho fatto nulla di indegno di un uomo onesto e, come uomo pubblico, nulla di indegno della mia funzione” (e questo già vuol dire tutto e nulla). “Ammetto che, pensieroso della sicurezza della regina e del regno, ho cercato in tutti i modi di scoprire fino in fondo gli intrighi diretti contro di lei”. Maria fu sodddisfatta di questa risposta e lo pregò di non offendersi, e di “non dare più credito ai miei calunniatori di quanta io ne abbia prestato ai vostri”.
L’udienza del mattino ebbe fine. Ricominciò nel pomeriggio.
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