A Roma hanno le mani legate, ma sanno benissimo che Campanella ha simulato la follia. Sono quindi decisi a metterlo fuori gioco per sempre, concludendo il processo con il carcere a vita. Il cardinale Santorio, allarmato da quasi cinque mesi di silenzio del tribunale napoletano, chiede aggiornamenti il 4 gennaio 1602. Da quel momento in poi, per circa trent’anni, Campanella se ne rimane, senza nessuna formale condanna, rinchiuso dentro diverse carceri napoletane, quale più quale meno orrenda. Fino al 1604, sta passabilmente bene nel Castel Nuovo; ne approfitta per scrivere a man salva (la Monarchia di Spagna, la Metafisica, la Città del Sole, e altro ancora). Ma nel 1604 si scopre che (forse) sta progettando la fuga, e lo sbattono di nuovo nelle segrete “del coccodrillo” (un vano cieco, al fondo di 24 scalini, buio, talmente umido che stilla a gocce, dove il prigioniero, ferrato mani e piedi, dorme su un pagliericcio umido; ha luce per mezz’ora al giorno, per leggere il breviario; quanto al cibo, meglio non parlarne). Ci resta, pare quasi incredibile, quattro anni. Ancor più incredibile è che riesca, sfruttando le premure di amici e la tolleranza di guardie corrotte, a scrivere anche in queste condizioni (e mica poco: oltre a molte delle poesie migliori, l’Ateismo Trionfato e i Discorsi ai principi d’Italia, eccetera). Nel 1608 viene trasferito in luogo un po’ più salubre: ne approfitta per dettare altre opere (Poetica, Retorica, Dialettica, Storiografia, Medicina, Astrologia), oltre a tradurne in latino altre.
Purtroppo nuovi sospetti lo fanno rigettare nella fossa del coccodrillo nel 1614; ci resta altri quattro anni. Nel 1618 aveva spedito a Roma un nuovo memoriale, chiedendo di essere liberato dal carcere “sotterraneo e insalubre”; il Sant’Uffizio risponde: ok, alleviategli la prigionia, ma che la fuga sia impedita a ogni costo. Quindi, finalmente, lo trasferiscono a Castel Nuovo, dove godrà infine di una prigionia decente (riceve perfino le visite del viceré, il duca di Osuna; può dare lezioni e vedere amici). Nel 1618, ha già scritto una lunga filza di nuove opere, tra cui una gigantesca Theologia e l’Apologia per Galileo: ma ormai è stanco e si dedica più che altro a rivedere e correggere la (del resto lunghissima) serie delle sue opere precedenti.
Comincia anche, dopo vane speranze di liberazione, a dedicarsi fattivamente alla sua posizione legale. Verso i primi del 1620, Campanella viene a sapere che, per ragioni misteriose, il fascicolo del suo processo è andato disperso, o comunque è irreperibile. Speranzoso, Campanella scrive una Informazione sopra la lettura dei processi fatti l’anno 1599 in Calabria “de rebellione”. In essa, in sostanza fidando sul fatto che gli atti del processo erano spariti e quindi nessuno poteva smentirlo, metteva su carta una radicale rilettura del processo, in cui non solo ribadiva la sua innocenza e l’inverosimiglianza delle accuse (scrive: “In primis, questo processo si deve leggere più presto come poema di favole impossibili intessuto, che come storia o diceria inverosimile”), ma soprattutto dimostrava l’illegalità sia della procedura sia, soprattutto, della sua prigionia (vent’anni in carcere, in condizioni durissime, senza alcuna condanna!) Ad esso fa seguire, in guisa di narrazione storiografica, una Narrazione della istoria sopra cui fu appoggiata la favola della rebellione. 
Il testo è lucido e abile. Ma al Sant’Uffizio e anche al Vicereame se ne fregano. 
Altri sei anni passano, e infine nel maggio del 1626 gli si permette di tornare al convento di San Domenico a Napoli. Ma dopo nemmeno un mese, a Roma ci si chiede: ma visto che il Campanella è guarito dalla pazzia, non è il caso di esaminarlo daccapo sui reati per cui di fatto non era mai stato condannato? E Campanella viene spedito a Roma. Se ne sta due anni nel (comodo) carcere dell’Inquisizione, senza che il tribunale faccia quasi nulla, e infine le lodi e le pubbliche difese elevate a favore del cardinale  Barberini, nel frattempo diventato papa come Urbano VIII, pagano i dividendi: viene liberato nel 1628.
Papa Urbano VIII Barberini
Ma certo ormai è vecchio (sessant’anni), prostrato dalla prigionia e dalle torture. Ciononostante, continua a scrivere, a parlare,  a darsi da fare in numerose direzioni. Pure troppe. Il processo a Galileo, che lui aveva difeso pubblicamente, gli nuoce; per colmo di sfortuna, viene processato (e strangolato in carcere) per tentata ribellione al viceré di Napoli un suo amico, fra Tommaso Pignatelli, ed è comune l’opinione che anche Campanella sia implicato. Lo stesso Pontefice, per evitare nuovi guai e seccature diplomatiche, avvisa Campanella del pericolo e gli “consiglia” di scappare. 
Campanella non se lo fa dire due volte: travestito e sotto falso nome, fugge da Roma nella carrozza dell’ambasciatore francese la notte del 21 ottobre 1634; a dicembre è a Parigi dove viene accolto con tutti gli onori (Richelieu e perfino il Re lo ricevono in privato colloquio). Diviene una specie di consigliere per l’Italia dei governanti di Francia, continuando a scrivere un po’ di tutto. Muore infine nel convento domenicano di rue Saint’Honoré il 21 maggio 1639.

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