A un certo punto, mentre stava ultimando queste memorie, Campanella deve aver capito che tutte le sue attività difensive non avrebbero verosimilmente portato a nulla e che la sua condanna a morte era solo questione di tempo – precisamente, il fatto che non fosse ancora stato condannato dipendeva da una serie di incidenti, soprattutto da dispute sulla competenza fra l’autorità civile spagnola e l’autorità ecclesiastica. Con una decisione folle e eroica allo stesso tempo, il Nostro decide allora di cambiare completamente strategia. Così, il 2 aprile 1600, la mattina di Pasqua, i carcerieri lo trovano riverso e vaneggiante sul pagliericcio incendiato, nella cella piena di fumo. Di lì in avanti, per oltre un anno, Campanella gioca una partita disperata con i carcerieri e i giudici: si finge, cioè, pazzo. La ragione è semplice: secondo la legge canonica, un pazzo non può venire ucciso, perché non ha modo di pentirsi e dunque la sua dannazione ricadrebbe sul capo dei giudici. I due memoriali difensivi già scritti, dunque, non solo divengono inutili, ma finiscono quasi con il risultare controproducenti e così vengono consegnati di nascosto da Campanella ad amici, che li tengono occultati fino a oltre un anno dopo, quando riemergono (verranno in parte riutilizzati da Campanella per successive pubblicazioni). La notizia viene riportata ai giudici, che subito dispongono, prima ancora degli interrogatori di rito, che Campanella sia sorvegliato, per verificare se per caso non si tradisca coi compagni di prigionia.

Abbiamo il verbale redatto da due scrivani del tribunale che di notte, tra il 1 e il 1 aprile del 1600, strisciano nel corridoio su cui si affacciavano le celle per ascoltare i colloqui notturni tra i prigionieri. Non ne emerge granché, a parte, di nuovo, uno squarcio di umano interesse sui rapporti, anche carnali, che si intrecciavano fra questi disgraziati (Tommaso: “O fra Pietro, perché non opri qualche modo, e dormimo insieme, e godemo”; Fra Pietro Ponzio: “Volesse Dio, e dovesse dare dieci docati alli carcerieri; e a te, cor mio, te vorrìa dare vinte basate per ora”). Il 17 maggio Campanella viene convocato davanti ai giudici in Castel Nuovo a Napoli (sono il vescovo di Termoli, il vicario generale di Napoli e l’uditore del Nunzio apostolico, più vari delegati e un notaio): alla richiesta di prestare il giuramento di dire la verità, “finse di non capire e di essere fuor di senno”. I giudici gli dicono che è tenuto a rispondere, smettendo di fingere e simulare: altrimenti, bisognerà disporre “gli opportuni rimedi” (cioè la tortura); ma lui continua a fingersi pazzo. Visto inutile proseguire, Campanella viene riportato alla sua cella. I giudici, come si vede, hanno la forte impressione che Campanella stia simulando (del resto simulare la follia, vista la normativa di allora, era la cosa più ragionevole da fare: ne seguiva ovviamente, come in ogni Comma 22 che si rispetti, che chi diceva di essere pazzo era evidentemente savio); ma non ne hanno la certezza. Il 9 giugno il cardinale Santorio, richiesto dal tribunale inquisitoriale a Napoli, autorizza quest’ultimo a impiegare la tortura, sempre nei limiti della legge, contro Campanella “per avere da lui la precisa risposta, con avvertire di non interrogarlo de’ capi del negozio principale, per non debilitare le ragioni del Fisco” (cioè: per non danneggiare la causa per ribellione, contemporanemente condotta dalle autorità civili napoletane: siccome le confessioni sotto tortura avevano un peso legale notevole, se a Campanella fossero state poste domande sul “negozio principale” e lui avesse risposto in modo difforme da quanto già stabilito dall’istruttoria nel processo per ribellione, avrebbe potuto compromettere le conclusioni ivi raggiunte. Quindi, bisognava limitarsi a interrogarlo solo per verificare la sua effettiva pazzia ovvero simulazione).

Ricevuta l’autorizzazione da Roma, i giudici il 18 luglio richiamano Campanella. Gli chiedono di dire quando era stato arrestato, dove, perché e come. Campanella risponde sempre con l’aria di non sapere cosa sta dicendo: “Volsero pigliare fràtimo, e poi si concitorno tutti contra di me, e mi hanno spogliato, e mi ritrovo in questo modo, e ho fatto tanti libri, e poi me li hanno cambiati, e ho da conciare la Biblia, e il papa ha da venire, e voi non volete venire meco”. Si mette il cappello in testa; l’aguzzino glielo leva, al che lui si alza e comincia a inveire contro di lui. Il tribunale gli dice a brutto muso che la facesse finita, altrimenti sarebbe stato torturato; ma lui continua a straparlare (“Qua bisogna che venga il papa, li vescovi non hanno da avere la quarta, e io ho fatto designare un convento in Stilo, e il provinciale se ne sta e scrive alli monacelli – facite, facite - ed esso non fa niente”). Quindi si procede alla tortura: Campanella viene portato nella stanza dei supplizi, spogliato e appeso alla fune. La tortura della corda dovrebbe, in base alla legge, durare mezz’ora al massimo; ma in questo caso, con una breve interruzione per calarlo giù nella speranza che confessi, durerà il doppio, un’ora. Campanella però non si tradisce; in mezzo alle urla e alle lacrime, si toglie anche la soddisfazione di insultare i manigoldi (“Ohimé, che moro! Ah, traditori, figli di cornuti, bagasce, mi hanno ammazzato! Madonna santissima, aiutami! Ohimé, li cornuti, ohimé, li assassini!”), ma è sufficientemente lucido da continuare a dare risposte senza senso (“bisogna che venga il papa; se il papa non viene, che rimedia a ogni cosa, le cose non vanno bene”, “quella figura di san Rocco l’ha fatta Paolo Campanella”, “se volete così, la quarta non si pagherà più”). Anche la minaccia di sottoporlo nuovamente al supplizio del polledro non produce effetto. Vista l’inutilità del supplizio, viene tirato giù; viene “rimesso in sesto dagli aguzzini” (che sono un po’ cerusici, e quindi gli rimettono in posizione le ossa slogate) e lo riportano in cella. Appena due giorni dopo (un tempo insufficiente per riprendersi dall’orrenda tortura della corda) Campanella viene richiamato per essere interrogato. Già al giuramento, Campanella dà fuori di matto (vuole uscire, si mette a baciare delle immagini su un calendario.) Alle domande, risponde più o meno alternando cose sensate (ad esempio, sa i nomi delle sue sorelle) e insensate (dice di predicare la Signora grande, che gli manda vino e uova; dice di vedere sempre suo padre, che invece non vede fin dall’arresto; dice che “li denari stanno sepolti sotto la chiesa, e a me non danno niente, ed essi se li pigliano” e che “quattro confortini neri vengono ogni sera e mi ammazzano; li soldati li correvano indietro e io, fuggendo, curri venti miglia”). Lo rimandano in cella un’altra volta.
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