Si tratta in massima parte di spiantati, miserabili, sciroccati, dropout di vario genere, ma ci sono anche decine di frati e religiosi, e in tutto sono comunque qualche centinaio, e qualcuno di loro millanta anche contatti col Gran Turco per la fornitura di aiuti militari. La cosa, insomma, fuoriesce dall’ambito della semplice stravaganza per cominciare a assumere i tratti dell’insurrezione vera e propria, per quanto bislacca e inverosimile. 
La vigilanza spagnola è occhiuta e scatta la repressione. Nell’agosto 1599 una spedizione militare spagnola sbarca in Calabria e la congiura crolla in poche ore. Il 17 agosto Campanella fugge dal convento e si nasconde presso un amico, che però lo tradisce: viene catturato il 6 settembre  e rinchiuso in una prigione a Castelvetere. Qui viene subito interrogato da un abile avvocato fiscale, Xarava del Castillo, che più o meno lo intorta con mezze promesse e lo convince a sottoscrivere, il 10 settembre, una confessione, la c.d. Dichiarazione di Castelvetere. 
Campanella vi ricostruisce la sua tensione profetica (“ho atteso a diverse professioni de scienza, e in particulare alla profezia, tanto raccomandata da santo Paulo alli Corinti”),  culminata nella convinzione che tanti prodigi in cielo e in terra (eclissi, terremoti, inondazioni) significassero “mutamento nelle cose umane”. Queste cose, ammette Campanella, le aveva pubblicamente predicate. Racconta quindi di tutte le persone che, sperando personalmente in un rivolgimento che avrebbe forse recato loro vantaggi personali, chiedevano conferma della prossima rivoluzione. Nega fermamente di essere mai andato oltre queste generiche conversazioni, e anzi afferma di aver invitato tutta questa gente a sopportare cristianamente il proprio fardello. Afferma inoltre di essersi burlato di tutti quelli che gli avevano parlato di rivolte e di alleanze militari con i Turchi, non senza ammonire che i Turchi “sono infideli e nemici,  e non si può fidare”  (ma allora le conversazioni che aveva avuto erano andate ben oltre!); accusa altri, in particolare un certo fra Dionigi, di “predicare rebellione secondo la profezia mia”; in conclusione, dice di essere innocente (“giuro che non ho mai pensato che le parole della predica mia… dovesse muovere tanta gente”). Ingenuamente, Campanella pensa di cavarsela riducendo il suo contributo a generiche interpretazioni di tipo apocalittico, riversando la responsabilità della congiura su persone che credeva (sbagliando) fossero già al sicuro, come fra Dionigi. Ma la ricca messe già raccolta dagli inquirenti, di confessioni degli altri complici, che unanimemente indicavano proprio in Campanella il capo e l’iniziatore della congiura, rendeva questa linea difensiva chiaramente insostenibile.
Ancora alquanto confuso, Campanella viene portato a Napoli prigioniero,  e rinchiuso in Castel Nuovo.
L’11 novembre 1599 il papa chiede (inutilmente) a Napoli di consegnargli gli imputati ecclesiastici, sospettati di eresia, e nel gennaio 1600 nomina il tribunale ecclesiastico deputato a giudicarli (ne faranno parte il nunzio a Napoli Aldobrandini e don Pedro de Vera). Il 18 gennaio 1600 viene interrogato Campanella, che nega tutto. Si chiede quindi a Roma l’autorizzazione a torturarlo. 
Il  31 gennaio viene buttato in una immonda segreta sotterranea, detta “del coccodrillo”. Lo tirano fuori il 6 febbraio, stremato, e subito lo sottopongono a una simpatica tortura con uno strumento chiamato “polledro” (puledro, cioè il cavalletto): torturato, non regge – o fa solo finta di non reggere? Ha già pensato alla scappatoia che metterà in pratica poco dopo? Non si sa. Comunque  sottoscrive un’ampia confessione (che però anni dopo andò perduta, come quasi tutti gli atti del processo, come vedremo). In sostanza, pare abbia confessato di aver desiderato l’instaurazione di una repubblica, ma continuando a negare di aver tramato una ribellione. A quel punto gli viene assegnato un difensore e dato tempo per presentare le sue difese.
Campanella redige tra il febbraio e l’aprile 1600 due memorie difensive in latino, che sostanzialmente vertono, la seconda sulla giustificazione scritturale e patristica delle sue visioni profetiche, e la prima su una abile narrazione dei fatti della congiura, che mirava a spostare la colpa su altri congiurati e a attenuare le proprie responsabilità. Si tratta di testi non privi di interesse, ma che, come vedremo,  non sortirono alcun effetto nel corso del processo.
La prima memoria contiene diversi ritratti e notazioni fulminee che forniscono un quadro impietoso della situazione calabrese e sulla, diciamo, moralità del clero. Di uno dei testimoni d’accusa, per esempio, scrive:
“Fra Giovan Battista da Pizzoni è un suscitatore di scandali, scellerato e infame, condannato per furto nella provincia di Calabria… Inoltre a Briatico stuprò tre sorelle vergini con grande scandalo. E ingravidò una donna, che fu per questo uccisa dai suoi fratelli, i quali si diedero alla macchia per ammazzare fra Giovan Battista… Ebbe inoltre a soffrire di mal francese contratto da prostitute di Messina e per tal causa i superiori lo espulsero dai conventi di Briatico, Filogaso e Nicastro, e quando era già convalescente riprese il contagio. Inoltre per i suoi scandali fu scacciato a gran rumor di popolo e con rischio della vita dalla città di Cutro. Inoltre era voce corrente nella provincia che egli avesse dato un suo nipote maschio, cioè Fabio da Pizzoni, un giovinetto, in moglie a fra Silvestro da Lauriana e che li facesse dormire insieme. E il Pizzoni mangiava carne tutti i giorni, e stavano loro tre soli… Inoltre è biforcuto, maledetto da Dio nell’Ecclesiastico: fategli aprire la bocca e vedrete ch’egli ha la lingua partita a mezzo come i serpenti. Che credito può dunque meritare?”
La seconda memoria contiene passi di cui è più difficile giudicare, dato che ai nostri occhi contengono speculazioni a dir poco bizzarre: 
“Che poi io abbia ragionevolmente previsto che l’inizio di tali mutazioni si sarebbe verificato l’anno 1600, risulta dal fatto che si tratta di un mutamento cruciale dei tempi; infatti, sebbene per Dio mille anni non siano che un giorno, pure 1600 ne sono trascorsi da quando fu affermato: ‘Vengo tosto’. E poiché già si sono manifestati molti segni, e di innegabile significazione, per seguire la parabola dell’albero di fico dobbiamo credere che la mutazione si verifichi probabilmente ai nostri giorni, poiché sempre sogliono avvenire nei momenti cruciali, cioè nel novenario e nel settenario, nonché nei composti. Ragion per cui Platone, descrivendo il suo Stato ideale, domanda se potrà mai perire, data la sua perfetta costituzione, e risponde che perirà per virtù dei numeri, secondo la dottrina di Pitagora. E l’autore del Metodo storico ha dimostrato che tutti i regni e  gli imperi perirono nel settenario e nel novenario, come risulta negli Assiri, Persiani, Medi, Greci ecc. La cosa è naturale, visto che Dio ha creato tutte le cose ‘in numero, peso e misura’, come dice Salomone, anche se Aristotele, a torto, nega l’efficacia del numero… Anche Mosè si vale dei settenari nelle ripartizioni del tempo e fissa per il giubileo un interavllo di sette volte sette… Essendo dunque l’anno 1600 composto dal settimo e dal nono centenario, è palese ch’esso è critico e decisivo per le grandi mutazioni delle cose terrene”.

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