Di processi a Tommaso Campanella ce ne sono stati cinque. Non è facile districarsi (c’è anche chi ne conta di più), ma grazie alle fatiche di  Luigi Firpo siamo più o meno in grado di distinguerli e datarli.
Cominciamo però dall’inizio. Campanella nasce a Stilo, in Calabria, il 5 settembre 1568, in una famiglia poverissima di un paesino povero e isolato. Il padre è un ciabattino carico di figli. Ragazzo intelligentissimo e precoce, non avendo i soldi per seguire le lezioni del maestro, il Nostro le ascoltava dalla finestra, e imparò subito più degli studenti veri. A tredici anni, ufficialmente per l’impressione fattagli dalla predica di un frate domenicano, ma forse in realtà per sottrarsi a una vita miserabile e senza prospettive e per avvicinarsi alle fonti della cultura, si fa domenicano anche lui. Studia con ottimo profitto in vari seminari calabresi, ma manifestando  da subito una fiera indipendenza di giudizio che preoccupa i maestri (“Campanella, Campanella, tu non farai buon fine!”, lo ammoniscono).
A vent’anni, studente di teologia a Cosenza, scopre i libri di Telesio che gli fanno una grande impressione. Forse troppa, visto che il suo entusiasmo telesiano induce i superiori a mandarlo in punizione nel convento di Altomonte. Nel soggiorno forzato di Altomonte Campanella (un poligrafo di impressionante lena e rapidità) scrive un trattato in difesa di Telesio (Philosophia sensibus demonstrata): ma a un certo punto si stufa e se ne va a Napoli. Non si trattò comunque, pare, di una autentica “fuga”, che avrebbe comportato la rottura con l’Ordine e l’abbandono dell’abito: però a Napoli Campanella fece vita libera, soggiornando in posti vari e anche fuori convento, senza rispettare gli obblighi della sua condizione e frequentando signori, letterati e scienziati (e naturalmente scrivendo molto). Poco dopo, però, quando esce a stampa il libro già citato su Telesio (siamo nel 1591), l’Ordine si arrabbia sul serio. E’ vero che il libro non conteneva nulla di eterodosso, ma Telesio in generale non piaceva ai Domenicani, e per soprammercato qualche frate lo accusò di aver pronunciato frasi irriguardose sulle scomuniche e di avere (è vero, lo giuro) un diavolo nel dito mignolo, che gli suggeriva le risposte e grazie al quale aveva acquisito la fama di sapiente. 
Questa è Stilo, che oggi è una specie di gioiellino turistico, ma all’epoca era, diciamo, tutt’altro.
Il processo interno all’Ordine domenicano si chiude nell’agosto 1592 come doveva finire, data l’esilità delle accuse, cioè con una assoluzione; però gli si ordina di tornare entro sette giorni in Calabria. Lui non ci pensa neanche e, con una nuova e più grave infrazione disciplinare, se ne va in direzione opposta, a Firenze. Spera in una cattedra in Toscana, ma il Granduca si limita a fargli grandi complimenti e a donargli una somma di denaro. Se ne va allora  a Padova, dove si iscrive (sotto falso nome) a Medicina, e intanto scrive un po’ di tutto e sopravvive dando lezioni private; conosce anche il giovane professor Galilei, pure lui in poco floride condizioni economiche.
Alla fine del 1593, si fa invischiare in una storia oscura: pare avesse disputato con un ebreo convertito ma poi tornato all’ebraismo. La disputa di per sé andava benone, ma il problema era che Campanella aveva omesso di denunciare l’ebreo  all’Inquisizione. Quindi, assieme a due altri imputati, viene chiuso in carcere e processato. Il caso si complica per l’aggiungersi di altri capi d’accusa (divinazione, materialismo, linguaggio scurrile); viene sottoposto alla tortura della corda, piccolo antipasto di quel che succederà qualche anno dopo. Il processo viene avocato dal tribunale dell’Inquisizione di Roma. Campanella si difende con un’attività scrittoria che ha dell’incredibile. Alla fine però, se riesce a evitare la condanna, non può tuttavia scampare l’abiura (per grave sospetto di eresia). Presta dunque l’abiura in Santa Maria sopra Minerva (lo stesso luogo dove, parecchi anni dopo, si vedrà Galileo a sua volta abiurare), il 1 maggio 1595.
Campanella è quindi ormai un sorvegliato speciale: come lapsus non può più permettersi errori, perché al prossimo grave sospetto di eresia non potrebbe contare più sull’indulgenza del Sant’Uffizio ma andrebbe direttamente sul rogo. 
L’uomo però è incapace di fare quel che dovrebbe e di restarsene buono e zitto; quindi, nella residenza coatta del convento di Santa Sabina, si rimette a scrivere copiosamente (stavolta contro luterani e calvinisti). 
E questa è Santa Sabina (oggi, non allora).
Ma scoppia un nuovo incidente: nel marzo 1597 un bandito calabrese, condannato a morte, lo denuncia come eretico (pare semplicemente per differire l’esecuzione). Così Campanella torna in carcere e ci resta fino alla fine del 1597. Dopodiché, viene riconosciuto pienamente innocente ma riceve l’ordine, stavolta perentorio, di tornare in Calabria definitivamente, nel convento domenicano di Stilo, la sua patria.
Campanella si avvia di nuovo verso casa, senza troppo entusiasmo, perché ritorna da sconfitto, da uomo malvisto dal suo Ordine e perfino sospetto di eresia: il ritorno a Stilo, dopo tante speranze e dopo aver assaporato la libertà e il commercio con tanti uomini notevoli, ha il sapore di un esilio e di una degradazione. Una cosa è certa: tutti si aspettano che Campanella finalmente impari a starsene al suo posto e a fare solo quel che gli viene chiesto, cioè il frate e il predicatore (e pure questo, con juicio).
Il problema però è non solo l’uomo Campanella, che è rimasto quel che è sempre stato, cioè incorreggibile, ma anche il luogo. Stilo non soltanto è il luogo di nascita del frate, dove tutti lo conoscono e dove vive da sempre la sua famiglia, ma anche una zona arretrata e poverissima, nella quale, per di più, sotto la cenere proliferano scintille pericolose: una polveriera, insomma. Ricordiamoci che la Calabria è pur sempre la patria di Gioacchino da Fiore, “di spirito profetico dotato”, come diceva Dante. In un luogo come quello, anche fra Tommaso si scopre ripieno di spirito profetico. Comincia a additare in cielo e sulla terra i segni premonitori di una rivoluzione non solo cosmica, a raccogliere i lamenti e il malcontento degli umili, a predire (e forse predicare) rivolgimenti politici. A un certo punto, finisce, non si sa bene se con una volontà precisa o per caso, certamente per insipienza pratica, col trovarsi in qualche modo a capo, o comunque a essere la figura di maggiore spicco, di una sorta di congiura contro il Viceré per abolire il regno e istituire una repubblica comunista (verosimilmente nel solco di quella che anni dopo fra Tommaso delineerà nella celeberrima Città del Sole). 

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