Il 20 agosto, giorno del processo, Pinard si alza a parlare. Fa un discorso molto più breve di quello che aveva pronunciato contro Madame Bovary (che già era una requisitoria insolitamente stringata), molto più sobrio, e anche molto più astuto. Comincia, come già nel processo precedente, lamentando la difficoltà del suo compito: “Perseguire un libro per oltraggio alla morale pubblica è sempre una cosa delicata. Se l’azione non riesce, si fa all’autore un successo, quasi un piedistallo; se trionfa, allora si assume, verso di lui, l’apparenza della persecuzione”. Qui c’è un richiamo evidente alla vicenda Flaubert. Prosegue Pinard che, nel presente caso, Baudelaire arriva accompagnato dagli elogi di eminenti uomini di lettere, il che complica ancora di più il compito dell’accusa.
E tuttavia, signori, non esito a assumerlo. Non è l’uomo che dobbiamo giudicare, ma la sua opera; non è il risultato dell’azione penale che mi preoccupa, ma unicamente se essa è fondata
Anche questa distinzione fra l’uomo e l’opera non era stata fatta per Flaubert. Baudelaire, prosegue, “non appartiene a alcuna scuola” (dunque, non è un “realista”, accusa che invece aveva mosso a Flaubert); “il suo principio, la sua teoria, è di dipingere tutto, di mettere tutto a nudo”. Un poeta del genere affronterà la vita umana nei suoi aspetti più segreti, e lo farà esagerando le tinte, usando i toni del grottesco, dell’orrido, dell’odioso, del rivoltante, “allo scopo di creare l’impressione, la sensazione. In tal modo fa, per così dire, il contrario del classico, del convenzionale, che è singolarmente monotono e non obbedisce che a delle regole artificiali”. A questo punto, abilmente, Pinard ha una piccola ritrosia: “il giudice non è un critico letterario”, non deve decidere quale scuola artistica sia preferibile. Ma la legge gli impone di punire l’offesa alla morale pubblica:
il legislatore ha donato al potere giudiziario un’autorità discrezionale per stabilire se questa morale è stata offesa, se il limite è stato superato. Il giudice è una sentinella che non deve lasciar superare la frontiera. Ecco la sua missione.
Ci sono, quindi, dei limiti all’opera d’arte. E nei Fleurs, ci sono alcune poesie che questo limite lo hanno varcato. La giustizia, come un poliziotto alla frontiera, è lì per impedire questi sconfinamenti.

Pinard legge quindi alcuni versi (pochi, Pinard saggiamente non vuole tediare la corte) tratti da alcune (non tutte) delle poesie incriminate: Les Bijoux, A celle qui est trop gaie, Les Métamorphoses du vampire. Per quest’ultima poesia, Pinard si chiede se l’immoralità dei versi appena letti possa essere controbilanciata dai quattro versi finali (in cui il poeta, volgendosi pieno d’amore verso la donna-vampiro, scopre che essa non è altro che “un sacco pieno di pus”); e si risponde (con parole quasi identiche a quelle già usate per Flaubert): “Onestamente, credete voi che si possa dir tutto, dipinger tutto, mettere tutto a nudo, a condizione che si parli subito dopo del disgusto nato dalla deboscia e si descriva la malattia che la punirà?” E aggiunge: credo di aver dimostrato a sufficienza che il limite della morale è stato oltrepassato. Il pubblico ministero passa quindi alla morale religiosa (“questa grande morale cristiana che è in realtà la sola base solida dei nostri costumi”), che non è certo meglio trattata di quella pubblica. Al riguardo, segnala quattro poesie (Le reniement de St. Pierre, Abel et Cain, Les Litanies de Satan, Le Vin de l’Assassin), ma non le legge. Certo, dice Pinard, c’erano in queste poesie motivi sufficienti per l’accusa. Però, aggiunge inaspettatamente, dopo “le spiegazioni contraddittorie dell’udienza”, “avete la certezza necessaria per pronunciare una condanna sul secondo capo d’accusa? Voi valuterete se Baudelaire, questo spirito tormentato, che ha voluto fare dello strano piuttosto che del blasfemo, ha avuto coscienza di questo delitto”. Quindi, per il secondo capo d’accusa, secondo Pinard manca la prova dell’elemento soggettivo. Tenete conto che, solo 14 anni dopo, nel 1881, il reato di oltraggio alla morale religiosa venne abrogato: l’atteggiamento di Pinard (e del Tribunale), quindi, si spiega con l’obiettivo venir meno delle esigenze di tutela penale della morale religiosa. Invece la prova non manca per l’altro capo d’accusa, l’offesa alla morale pubblica. L’accusa procede a confutare anticipatamente alcune possibili obiezioni della difesa (vecchio artificio retorico). Prima obiezione: il libro è triste, fin dal titolo mostra l’intento di dipingere il male per metterne in guardia. Ma Pinard obietta: non è vero. Certi profumi, certi veleni, vanno alla testa, quale che sia l’intenzione di chi li stappa. Né tutti i lettori (e Baudelaire ne avrà tanti, dato che, dice il PM, il volume è venduto a basso prezzo) saranno capaci di tener la mente fredda e di giudicare con discernimento e razionalità. L’uomo è intrinsecamente debole e malato, e è prevedibile che molti leggendo il libro prenderanno il gusto delle “frivolezze lascive”, a dispetto dell’intenzione dell’autore. Gli spiriti più influenzabili potranno senz’altro ricevere influssi malsani dai quadri di Baudelaire.

Seconda obiezione: altri libri sono stati pubblicati in passato, ben più lascivi di questo, senza alcuna sanzione. Risposta: questo tipo di precedenti non vincolano né l’accusa né i giudici, perché possono esserci delle ragioni di opportunità che giustificano l’inazione. Ad esempio, non si agirà mai contro un libro che prevedibilmente avrà pochi lettori: anzi, perseguendolo, lo si pubblicizzerebbe. Ma questa libertà dell’accusa non può esserle ritorta contro: l’accusa dev’essere libera di agire, altrimenti il risultato sarebbe “l’impunità assoluta”. Siamo alla perorazione finale. Pinard esorta i giudici a reagire contro questa tendenza malsana a tutto dipingere, a tutto rappresentare. Le civiltà classiche avevano certamente le loro oscenità, come si vede negli affreschi di Pompei e Ercolano. Ma i loro templi, e le statue di divinità nude in essi contenute, erano casti. “Nella nostra civiltà impregnata di cristianesimo, dobbiamo avere almeno lo stesso rispetto” per la morale sociale che mostravano gli antichi pagani. Inoltre, il libro “non è un foglio leggero che si perde e dimentica come il giornale. Quando il libro appare, è per restare” (questa serve a spiegare come mai si sia più severi con dei libri che con la pubblicistica oscena venduta nelle edicole). Aggiunge Pinard (con una trasparente allusione alla sentenza che assolse Flaubert): “So bene che vi si solleciterà l’assoluzione limitandovi a biasimare il libro in qualche ‘premesso che’ ben argomentato. Voi, signori, non avrete questa imprevidente condiscendenza. Non dimenticherete che il pubblico non vede altro che il risultato finale. Se vi è assoluzione, esso crede che il libro sia assolutamente amnistiato, e dimentica subito i ‘premesso che”. Ed ecco la notevole conclusione:
Siate indulgenti con Baudelaire, che è una natura inquieta e senza equilibrio. Siatelo con gli stampatori, che si mettono al riparo dietro l’autore. Ma date, condannando almeno alcuni pezzi del libro, un avvertimento divenuto necessario.
Come vedete, la tattica di Pinard è ben pensata. Non punta al bersaglio grosso, cioè a vietare tutto il libro (cosa che non gli era riuscita con Madame Bovary); non punta neanche a condannare l’autore (come aveva fatto con Flaubert, anche qui fallendo), anzi chiede espressamente indulgenza ai giudici per Baudelaire (uomo “inquieto e senza equilibrio”, che in parte ovviamente è una allusione allo squilibrio mentale): mira solo a una vittoria limitata, a vietare alcune poesie, sul centinaio totale del libro. Arriva perfino a definire i Fleurs “ce recueil de pièces détachées”. È una tattica in opposizione frontale a quella della difesa, che invece, come vedremo, insisterà sull’unità inscindibile del libro, che ha una architettura interna che non può essere alterata senza danno. Chiede poco, il che è sempre una buona mossa per ottenere comunque qualcosa. Soprattutto, con la sua “abile moderazione”, Pinard ha messo in una posizione difficile la difesa.
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