La vicenda principale, la Colonna Infame propriamente detta quindi, si concluderebbe a rigore qui. Ma l’indagine continua, e le parti forse più interessanti devono ancora arrivare. Quindi, ecco cosa successe dopo.
L’11 agosto viene interrogato Girolamo Migliavacca, il Foresaro senior: ma in sostanza nega quasi tutto, salvo che di conoscere Baruello e Bertone. Viene quindi chiesta l’autorizzazione a minacciarlo di tortura se persiste nella negativa. Così, il giorno successivo, viene torturato. Immediatamente diventa un fiume in piena. Ricorda che il Baruello gli aveva dato dei vasetti di un’acqua “dormitiva”; poi, stimolato dalle domande, ricorda che Baruello una volta in casa sua preparò un onto, dentro un calderone, assieme al cognato Bertone; dopodiché gliene diede un’ampollina, perché ongesse la sua bottega (?), cosa che lui fece. Menziona cinque/sei persone; anche lui menziona, come cervello dietro l’iniziativa, il figlio del castellano spagnolo (di cui Baruello sarebbe stato grande amico), e dice che i soldi al Baruello transitavano attraverso un banchiere, del quale però Migliavacca ignora il nome.  Richiesto se fosse amico di Mora, nega (lo conosceva sì, ma “tra lui, e me, non vi era di buono”); richiesto se conosceva Piazza, dice di sì, ma che con lui non aveva mai avuto a che fare per gli unti. A questo punto lo minacciano nuovamente di tortura, e lui ha questa grande risposta: “signor no, che non è vero, ma se mi date li tormenti, perché io neghi questa particolarità, sarò forzato a dire, che è vero, benché non sii, et se fosse vero, come è vero il resto, che ho confessato, lo direi”: appena compare la tortura all’orizzonte, diviene immediatamente impossibile distinguere tra vero e falso (ex tortura quodlibet). Comunque resta fermo sulla negativa: Piazza e Mora non gli hanno dato niente. In un successivo interrogatorio ricorda il nome del banchiere: è Turcone.
Viene quindi interrogato il nuovo protagonista dell’inchiesta, Giovanni Stefano Baruello. Gli chiedono cos’abbia dato a Migliavacca senior, e lui risponde con sicurezza: un’ampolla con l’acqua “dormìa”, cioè sonnifera. Nient’altro? No, nient’altro. Dice di aver fatto questa dormìa anche una volta in casa del Foresaro (e qui la sua versione combacia con quella di Migliavacca). Dice di non lavorare, ma vivere di rendita (ha delle case che ha dato a pigione). Conosce Giacinto Maganza, che lavorava per lui all’assedio di Casale, ma poi lo aveva cacciato a bastonate perché “mi vendeva la biada”, e da allora non l’ha più frequentato. Dice di non conoscere Piazza e di conoscere Mora solo di vista. Come si vede, un quadro diverso da quello emerso dalle confessioni di Maganza e di Migliavacca. Ha amici nobili? Lui dice di conoscere solo quelli della famiglia del senatore Visconti. Conosce il giovane Padilla? Dice di sì, ma “non ho mai trattato, né praticato con lui”. Gli inquirenti si stancano e lo minacciano di tortura se non cambia versione. Ma siccome insiste, lo torturano. Urla e invoca la Madonna, ma non cambia versione.
Viene quindi sentito Pietro Girolamo Bertone, il cognato di Baruello. Questi sostanzialmente conferma le parole del cognato. Allora, nuovo confronto all’americana con Migliavacca. Ma Bertone tiene duro, e non ritratta nemmeno sotto la tortura. 
La nuova pista degli inquirenti si sta rivelando un vicolo cieco. Il 19 agosto si delibera la condanna a morte di Migliavacca senior (che non ha sfruttato i termini a difesa e non ha depositato memorie), con le stesse modalità usate per Piazza e Mora. Quanto a Baruello, gli si diano i termini a difesa, sempre brevi (tre giorni). 
Migliavacca senior viene richiamato, e gli viene annunciata la sentenza; invitato a confessare per sgravarsi l’anima, ripete che tutto quel che ha detto è vero, anzi aggiunge che è sicuro che il banchiere che dava i soldi a Baruello era Turcone (prima dell’esecuzione, anche lui dichiarerà di aver inventato tutto). Il 20 agosto viene interrogato anche Gaspare Migliavacca junior, che però nega tutto.
Il 23 agosto, Re Filippo IV in persona decreta, vista una supplica di Baruello, che gli si conceda un nuovo termine di sei giorni per le difese. Il 2 agosto, arrivano le difese. Che non devono essere state un granché, visto che il giorno successivo il Senato lo condanna a morte con le solite orride modalità. Il 30 viene sentito un soldato della compagnia del Padilla, che racconta i soggiorni fuori Milano del capitano. Per quanto sia informato degli altri militari della compagnia, non conosce però nessun Pietro da Saragozza.
Il 7 settembre, colpo di scena: il re ordina a Ambrogio Spinola che il Senato conceda a Baruello un termine nel quale “manifesti l’autori, et complici di tale misfatto” dopodiché avrà l’impunità, purché però venga bandito per sempre dal dominio milanese. Il Senato decide di concedere a Baruello ben sei ore. 
L’11 settembre viene chiamato Baruello: obietta che sei ore sono poche, ma siccome il Senato è irremovibile, dice: sta bene, richiamatemi fra tre ore.

Comincia allora la fase di gran lunga più spettacolare, non solo del processo, ma forse di tutta la letteratura italiana del Seicento, ed è un peccato che sia un testo così poco conosciuto.  Alle 21 viene richiamato Baruello, che comincia a raccontare. 
L’avvio è molto dimesso. Racconta però molto pianamente, con dovizia di particolari (che accrescono la credibilità: Baruello è una vecchia volpe), tirando dentro una gran quantità di persone fino allora mai menzionate (Carlo schermitore, Fontana, Michele tamburino, un Trentino, un Besozzo e tanti altri). In sostanza, il Padilla, presentatogli da un tal Carlo, e che viene rappresentato come filofrancese (loro al vederlo gridano “viva casa Padiglia” ma lui aggiunge: “e li francesi”: mossa astuta di Baruello, dato che l’isteria antifrancese era all’epoca al colmo); è anche in compagnia di persone, tra cui un prete, vestite “alla francese”; gli promette mari e monti se diffonderà l’onto. Gliene da un po’, ma gli dice che è incompleto, e va completato facendo bollire insieme anche zatti e ghezzi. Lo riempie di danari. Baruello però non sa dove andare a trovare gli animali; lo mette sulla giusta via nuovamente Padilla, additandogli dei ragazzi che ne troveranno. Baruello quindi va dal Foresaro a cuocere la pozione (i particolari coincidono alla virgola col racconto di Migliavacca), dopodiché ne dà un po’ a Migliavacca dicendogli: “ongi le forbice delle donne”. Ma perché Padilla voleva ungere? Risposta di Baruello: perché il precedente governatore, don Gonzalo de Cordoba, era stato “trattato così male” in Porta Ticinese (insulti e sassate nell’agosto del 1629, verosimilmente per la severità con cui erano stati puniti alcuni presunti responsabili dell’assalto ai forni, così ben raccontato da Manzoni). Altri soldi gli vengon dati da un tipo vestito di nero, che successivamente viene da Baruello identificato con un aiutante di Turcone (Giambattista Bonetti). A un certo punto Baruello ricorda anche un episodio già confessato da Maganza, cioè quello che Maganza, su incarico di Baruello, dovesse ungere le porte, le pareti e i vestiti di chi si trovasse all’osteria del Gambero. 
Ma il meglio deve ancora venire.

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