Il 15 luglio si fa un confronto all’americana fra Piazza e Lucino. Quest’ultimo di fronte alle impudenti menzogne di Piazza, nega di conoscerlo, di aver mai sentito il suo nome, e soprattutto di avergli mai dati dei soldi. Ma ormai i commissari sono impegolati nel filone “bancario” dell’inchiesta, senza riuscire a levare un ragno dal buco. Torturano sia Lucino sia Turcone (quest’ultimo solo leggermente, perché “stroppiato” a un braccio), ma senza alcun risultato; anche le ulteriori perquisizioni nelle loro abitazioni non conducono a nulla. Il 21 luglio vengono dati i soliti due giorni a difesa a Piazza e Mora, che nominano i loro due difensori. Il 25 luglio viene arrestato finalmente don Giovanni de Padilla. Lo stesso giorno, arriva la sentenza per Piazza e Mora:
Riferito in Senato dal Mag. Senator Monti, Presidente del Magistrato della Sanità, il Processo formato contra Gulielmo Piazza e Gio. Giacomo Mora, quali con onto pestifero hanno appestato la Città di Milano; udito i voti de’ Padri, il Senato è concorso in questa sentenza.
Chi li sopranominati Mora, e Piazza, posti sopra di un carro sijno condotti al loco solito della Giustitia. Nell’andare ne’ lochi ove hanno delinquito, sijno tanagliati. Avanti la Barbaria del Mora, si tagli all’uno, & all’altro la mano dritta. Si rompino loro l’ossa al solito con la Rota, la quale si levi in alto, & in quella vivi s’intreccino i loro corpi. Dopò sei hore si scannino, e subito li loro cadaveri s’abbrucino, e le ceneri si gettino in fiume. La casa del Mora si spiani, & in quel largo si drizzi una Colonna, la quale si chiami Infame, & in essa si scrivi il successo; ne ad alcuno sia permesso mai più riedificare detta casa. Si dia satisfattione à creditori di detta casa de beni de condennati, e non bastando, siano satisfatti del Publico. Li beni di detto Mora, e Piazza si confischino. Il modo di condurre costoro alla morte sij questo. Vadino avanti due Banditori, li quali palesino al popolo la caggione della loro condennaggione, e tormentosa morte. Vi sia guardia sufficiente, acciò non nasca qualche tumulto nel popolo, & al medesimo fine si siggillanno le case de sospetti. Si getti un Bando, che ciascuno stij in casa, e si guardi. Il loco, ove si doverà fare la Giustitia si circondi con cancelli di legno, i quali, acciò non possino essere onti con l’onto pestifero sijno da huomini a posta guardati. Sopra il medesimo loco si formi come un’ombrella, acciò li Religiosi con minor disaggio possino assistere a giustitiati, e del tutto s’avvisi il Vicario di Giustitia.
«HIC VBI HÆC AREA PATENS EST
SVRGEBAT OLIM TONSTRINA
IO. IACOBI MORAE
QVI FACTA CVM GVGLIELMO PLATEA PVBL. SANIT. COMMISSARIO
ET CVM ALIIS CONSPIRATIONE
DVM PESTIS ATROX SAEVIRET
LETHIFERIS VNGVENTIS HVC ET ILLVC ASPERSIS
PLVRES AD DIRAM MORTEM COMPVLIT
HOS IGITVR AMBOS HOSTES PATRIÆ IVDICATOS
EXCELSO IN PLAVSTRO
CANDENTI PRIVS VELLIICATOS FORCIPE
ET DEXTERA MVLCTATOS MANV
ROTA INFRINGI
ROTÆQVE INTEXTOS POST HORAS SEX IVGVLARI
COMBVRI DEINDE
AC NE QVID TAM SCELESTORVM HOMINVM RELIQVI SIT
PVBLICATIS BONIS
CINERES IN FLVMEN PROIICI
SENATVS IVSSIT
CVIVS REI MEMORIA ÆTERNA VT SIT
HANC DOMVM SCELERIS OFFICINAM
SOLO ÆQVARI
AC NVNQVAM IN POSTERVM REFICI
ET ERIGI COLVMNAM
QVAE VOCETVR INFAMIS
PROCVL HINC PROCVL ERGO
BONI CIVES
NE VOS INFOELIX INFAME SOLVM
COMMACVLET
MDCXXX KAL. AVGVSTI(PRÆSIDE PVBLICO SANITATIS MARCO ANTONIO MONTIO SENATORE)
(PRÆSIDE SENATVS AMPLISS. IO. BAPTISTA TROTTO)
(R. IVSTITIÆ CAPITANEO IO. BAPTISTA VICECOMITE)»

Sappiamo (dalle Defensiones di Padilla, quindi non dal verbale del processo) che, non appena arrestato Padilla, il padre, il castellano don Francisco, si era subito mosso. Aveva mandato un suo uomo al presidente Monti: date le gravissime accuse mosse da Piazza e Mora contro il figlio, chiedeva di rinviare l’esecuzione della sentenza finché non si fosse potuto mettere a confronto i due delatori con l’accusato principale. Il Monti disse che “non era lui il giudice della causa, ma che toccava al senato, e che però ne dovessimo parlare al signor presidente del senato”. Va quindi dal presidente del senato, il quale loffissimamente gli risponde che “l’essecutione delle sentenza non si poteva soprasedere, se non era per ordine de’ superiori [cioè del re]” in quanto “il popolo esclamava”; ma che “il detto de due vigliachi non poteva macchiare la reputatione d’un cavagliere della qualità del signor don Gioanni, e che però sua signoria illustrissima non si doveva pigliar fastidio”. La scena non può non lasciare perplessi, dato che in verità, lungi dal diffidare del detto dei “due vigliachi”, il senato continuerà per più di un anno a inquisire ostinatamente don Giovanni. Di certo, come notano Farinelli e Paccagnini, il senato non osava sottrarre alla rabbia del popolo il castigo dei due capri espiatori; ma siccome in fondo la richiesta di don Francisco non era di annullare, ma solo di rinviare di qualche giorno l’esecuzione, è probabile che il senato, sempre geloso delle sue prerogative dinanzi al potere spagnolo, non volesse concedere un precedente pericoloso. Del resto, sono molti gli storici che leggono le vicende del processo come un tentativo delle autorità civili di Milano di rivendicare un proprio spazio di autonomia dal potere spagnolo (competenze ridotte da Filippo II nel 1580 e nel 1581, il senato accetò l’imposizione del re obtorto collo, ma continuò a lottare per recuperarne almeno una parte, e ci riuscì con la guerra prima, che allontanò stabilmente da Milano il governatore, e poi con la peste, che mise in mano a una emanazione del senato, cioè il Tribunale di Sanità, tutti i poteri di governo dell’epidemia). Sta di fatto che il vecchio don Francisco, per nulla rassicurato, nel giro di qualche giorno muore (a quel che pare) di crepacuore.

Sempre dalla Defensiones del Padilla risultano varie testimonanze, e perfino due dichiarazioni autografe di Piazza e Mora, rese in prossimità dell’esecuzione (il 31 luglio Mora, il 1 agosto Piazza), tese a negare l’autenticità delle confessioni, e in particolare delle accuse ai correi, ma più in generale di tutto l’impianto accusatorio: quel che avevano confessato, era stato “per l’atrocità de’ tormenti, et per instigatione fattali”. Mora in particolare, mentre stava già disteso sulla ruota, avrebbe detto che “poteva ben morire per altri misfatti, ma per quello che veniva fatto morire no”. Quanto a Piazza, questi nel carcere prima dell’esecuzione avrebbe fatto “gran contrasto” coi padri cappuccini: Piazza “strepitava, et diceva, che moriva al torto, et che era statto assassinato sotto promessa, et che perciò li volevano far perdere l’anima”. Come dargli torto, del resto. La sentenza viene eseguita alla lettera il 1 agosto 1630 (molti però sostengono che il supplizio ebbe luogo il giorno successivo). Nulla si dice in processo della sorte della famiglia di Mora (la moglie, un figlio, tre figlie e un garzone di bottega: verosimilmente, saranno stati banditi dal territorio di Milano; secondo Clini, si saranno rifatti una vita, sotto un nuovo nome, nella Repubblica di Venezia).

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