L’8 luglio viene nuovamente interrogato Piazza, per confermare ufficialmente quel che aveva detto stragiudizialmente in carcere. Evidentemente Piazza, preoccupato per la sua situazione processuale, spera di riavere l’immunità aggiungendo altri dettagli incriminanti alla sua confessione. Dice dunque che lui aveva procurato la “spuma de’ morti” su richiesta del barbiere, che voleva farne l’unguento mortifero; quando gliel’ebbe data, Mora gli assicurò che avrebbero entrambi vissuto “allegramente” per tutta la vita “senza lavorare” (si torna sempre lì: altro che il mito milanese del lavurà). Ma stavolta Piazza aggiunge una notizia succulenta: il “capo grosso” che aveva dato il via alla macchinazione sarebbe nientepopodimeno che un certo “di Padiglia” (Padilla), cioè il figlio del castellano (spagnolo) di Milano, don Francisco de Padilla, in pratica il capo della guarnigione spagnola. Decisamente un pezzo grossissimo. Gli inquirenti sono eccitati; tuttavia continuano a non capire perché uno del genere volesse far ungere porte e mura a Milano (Piazza sa solo dire: “lo faceva per far morire la gente”, più in là non sa andare). Baruello sarebbe, secondo una congettura di Piazza, un buon amico del figlio del castellano.
Il 10 luglio i commissari vanno a ispezionare prima la locanda della Rosa d’Oro (nel cui giardino trovano della terra smossa, dove appunto secondo Maganza era stata sepolta roba connessa alle unzioni) e poi a casa di Baruello (dove si trovano ampolle e altri contenitori con liquidi puzzolenti). Ivi interrogano una domestica (Margherita Ciechetti), che non sa aggiungere granché al fatto che ci sono delle ampolle con dentro del liquido: il padrone insieme col cognato Bertone facevano bollire delle robe puzzolenti e le mettevano nelle ampolle. Tutto qua. Poi però la richiamano (nel frattempo era stata messa in carcere, così, tanto per non sapere né leggere né scrivere) e le chiedono ulteriori dettagli. Lei dice di non sapere cosa esattamente si bollisse nella pignatta, perché la allontanavano sempre dandole commissioni da fare; che la padrona, cioè la moglie del Baruello, invece assisteva; e che le dicevano che si trattava di una pozione per le gambe e per alleviare i dolori del mal francese. La poveretta non sa altro.
Non era lei, ma magari le assomigliava.
Lo stesso giorno gli inquirenti conducono Maganza alla Rosa d’Oro: Maganza vi si orienta benissimo e li porta subito al punto dove, giorni prima, Baruello aveva scavato e disotterrato “non so che” che poi si era “messo nelle calze”. Un altro testimone dichiara che l’osteria è di proprietà di Melchiore Bertone (il suocero di Baruello) e tempo prima i due cognati volevano ammazzare tal Ermes Lampugnani, per togliergli una “bellissima puttana” che viveva con lui.
Interrogano la moglie di Baruello, sorella di Paolo Girolamo Bertone e figlia di Melchiore Bertone. Questa conferma che la famosa ampollina, e anche l’intruglio della caldaia, serviva a curarle il mal francese, che il marito le aveva attaccato.
L’11 viene risentito Baruello. Ripete più o meno quel che aveva già detto. Dichiara di conoscere (probabilmente: non sa il cognome) Maganza; non conosce alcun banchiere; non conosce Piazza. Conosce invece Mora, di vista, ma non ci ha mai parlato né è mai stato in casa sua (una volta sì, invece, nella bottega, insieme a uno che amava suonare il clavicembalo).
Dopo che Piazza ha riconfermato che il motore di tutto è il giovane Padilla, e che però non sa il motivo per cui Padilla voleva uccidere tanta gente, viene richiamato, lo stesso 11 luglio, Mora.
Mora nega tutte le nuove accuse, in particolare il ruolo di Padilla, anche dopo un confronto con lo sfrontato Piazza (che lo accusa perfino di averlo ridotto lui in quella situazione, anziché il contrario; al che Mora: “pazienza, per amor di voi morirò”); ma siccome i commissari gli dicono che così sta scritto (“si trova pur esser così la verità poiché in processo si legge”), lo torturano di nuovo. Come al solito, Mora non regge: quasi subito “confessa”. Anzi, nuovamente inguaiando Piazza con una gran copia di panzane tutte nuove che a quello non erano venute in mente,  aggiunge il nome del banchiere (un tal Giulio Sanguinetti) e la figura di un complice spagnolo di Padilla, un tal “don Pietro di Saragozza”, del quale fornisce una descrizione vaga (anche di Padilla del resto Mora fornisce una descrizione vaghissima, e sfido: non lo aveva mai visto, sta inventando freneticamente sul posto, solo per scampare la tortura).  Dice che il Padilla gli avrebbe fatto pervenire un’ampollina con dell’unto, chiedendogli di usarla per farne molti vasetti; ma lui, non fidandosi, l’aveva buttato nel fiume, sostituendolo con l’unto che aveva fabbrcato da sé con l’aiuto di Piazza. Non aveva però percepito nulla dagli spagnoli né dal banchiere, perché era stato arrestato prima di poter incassare qualcosa. Dettaglio interessante (la cosa tornerà, come vedremo, in grande stile, nella confessione di Baruello): sulle prime, Mora non riesce a dire il nome di Sanguinetti, ci riesce (guardacaso) solo dopo la tortura; richiesto di spiegare perché non ci riusciva prima, risponde che “non me ne racordavo, et sentivo in quella a gonfiarmi la gola”. Si tratta di un topos caratteristico delle possessioni diaboliche, e appunto Baruello ne farà un uso spettacolare.
Non era sicuramente la Rosa d’Oro (il quadro è di David Teniers), ma grosso modo…
Ora tocca nuovamente a Piazza e la gara a scavalcarsi con Mora continua. Il 13 (manca meno di un mese alla morte di entrambi, ma Piazza spera ancora) gli chiedono dei soldi, chi glieli dava ecc. Piazza parla anche lui di uno “spagnolo grande”, un tal don Pietro di Saragozza che aveva avvicinato Mora; a questo punto tira dentro anche un certo Girolamo Turconi, banchiere, a cui Mora lo avrebbe presentato. Così si apre in concreto il versante dei banchieri, che affascinerà a lungo gli inquirenti. Piazza menziona anche altri complici (un tal Bernardo Sassino, un Pedrino dei cavalli, un Vacazza). Notare: Mora nomina Sanguinetti, Piazza Turconi; il motivo è semplice, e non si capisce come potesse sfuggire ai giudici, ed è che ognuno dei due, messo alle strette, denuncia quelli che conosce, e sfortuna vuole che conoscano due banchieri diversi. Come pure è difficile bersi questa immagine di una Milano in rovina economica dopo tanti mesi di pestilenza, di banchieri che non hanno più credito, ma dove basta presentarsi a dire “voglio ungere” per ricevere sull’unghia centinaia di ducati, senza ricevute, senza scritture, senza niente di documentato. Ma anche questa è una contraddizione che ai giudici non interessa. 
Il giorno stesso richiamano Mora. Gli chiedono subito se conosca Turconi. Lui risponde di sì, ma aggiunge anche di non esserci mai andato e di non sapere neppure dove abiti. Gli chiedono se davvero non ci è mai andato: a questo punto Mora, memore di incidenti analoghi in passato, che hanno immancabilmente condotto alla tortura, ci pensa su per bene: “dopo aver pensato” fa marcia indietro e dice di esserci stato tre o quattro volte. Aggiunge anche di aver ricevuto molti denari (200 scudi in tutto), che poi riversava ai complici, tenendo poco per sé (all’ovvia obiezione degli inquirenti, risponde che poteva prenderne quanti ne voleva dal Turconi). Il Turconi gli faceva firmare una ricevuta. Quanto ai complici, menziona un tal Fusaro, anche lui il Pedrino dei cavalli, un Saracco, un Giussani. Il poveretto si spreme le meningi per conferire verosimiglianza alle sue confessioni, ma in pratica altro non fa che menzionare tutti i poco di buono che conosce e che sa essere in rapporti con i nomi già usciti. Quando gli chiedono perché prima aveva menzionato il Sanguinetti e poi il Turconi, Mora risponde: perché del Sanguinetti mi ha parlato Piazza, “dal quale vostra signoria potrà anche intendere, che [Piazza] ha avuto altra matteria per ongere, di quella, che li ho datta io, et non può essere, che habbi fatto tante ontioni con quella materia, che li ho datt’io”. Come vedete, Mora usa una certa malizia verso il suo carnefice Piazza, ripagandolo della stessa moneta.
Chiamano quindi Piazza per vedere se conforta la versione del Mora. E la coincidenza è sorprendente. Piazza dice di aver avuto soldi non solo dal Turconi, ma anche da un tal Lucino, “che sta per contro al Turcone”, a quanto pare nella casa del Sanguinetti; anche quanto alle cifre ricevute, si aggira intorno alle stesse cifre indicate dal barbiere. Gli inquirenti cominciano a trovarsi di fronte un quadro che, per quanto balordo e inverosimile ai nostri occhi, ha almeno il pregio della coerenza.
Di qui in avanti, si mettono tutti a cercare i banchieri. 
Non sono italiani, non sono del Seicento, ma sempre banchieri sono
Il 16 viene sentito Giulio Sanguinetti. Dice di non ricordarsi di aver fatto esborsi di danaro a privati ultimamente, ma siccome scrive tutto sui suoi libri, chiede che gli siano portati quei libri, già sequestrati, e con essi potrà render ragione di tutto. Si trova da cinque settimane fuori Milano; aggiunge che, da quando si è ammalato, cioè dal settembre 1629, ha “intermesso li negotii”, e quel poco che continuava a fare lo faceva tramite un figlio del signor Bonesana e tramite Benedetto Lucino. Ma è fermissimo: non ricorda nulla, l’unico modo che ha per rispondere è esaminare i suoi libri.
Il 14 luglio vanno a perquisire l’abitazione di Turconi. Vi trovano un suo scrivano, Giovan Battista Robiati, che riferisce che il suo padrone si trova nel territorio di Como, e era assente (a Gessate) anche  l’altro commesso, Francesco Bonesana. Si trova sul luogo anche Benedetto Lucino, che dice di essere stato richiesto dal Turconi “che  risponda alle lettere, che venivano de’ negozii, benché sinora io non habia risposto ad alcuna”. Il leitmotiv dei banchieri è sempre lo stesso: non ci sono affari, non sono stati fatti pagamenti, tutto quel che s’è fatto sta nei libri, apriamoli e vi diremo tutto. Nonostante l’incredulità dei commissari, Lucino dice chiaro e tondo che “il signor Turcone non attende più a nissun negotio, se non per qualche servitio d’amici”, quindi poca roba, comunque tutta contabilizzata. Sfidato dai commissari a spiegare che affari sono stati, Lucino ne dà pronta e esauriente spiegazione, attestata dai documenti. Niente che abbia a che fare con le unzioni. Si perquisisce la casa del Lucino, e nuovamente la casa del Turconi, senza trovare nulla; ad ogni buon conto, viene arrestato anche Lucino.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Hai bisogno di contattarmi?

Se vuoi avere informazioni, se hai domande curiosità, scrivimi!

Invia Mail

Seguimi sui miei Canali: