Il giorno dopo, 1 luglio, Mora viene richiamato: ha qualcosa da aggiungere alla confessione di ieri? No, dice lui cupo: “ho più presto cosa da sminuire”. Dichiara chiaro e tondo che la confessione di ieri è tutta falsa: 

quell’unguento, che ho detto, non ne ho fatto minga, e quello che ho detto, l’ho detto per i tormenti.

I commissari fanno brutto muso: inutile svicolare, non serve a niente, la confessione è regolare, scritta nero su bianco, stia attento altrimenti lo tortureranno di nuovo. Ma Mora insiste: non era vero niente. Persiste a negare anche dopo un primo tratto di corda. Al secondo tratto, però, cede di nuovo: non ce la fa proprio a reggere la tortura, il poveretto. Conferma quindi tutta la prima confessione, e continua a buttare la colpa su Piazza, che aveva avuto lui l’idea dell’unzione. I commissari dubitano che una cosa del genere potesse farsi solo per brama di guadagno: qual era il vero scopo? Ma Mora, che ovviamente non ne ha alcuna idea (è tutta un'invenzione di Piazza e dei giudici, mica sua), ribatte che devono semmai chiederlo a Piazza. Comunque, conclude, la sua (di Mora) intenzione non era di ammazzare la gente, ma solo di farla ammalare, per poi impiegare l’elettuario.
In Senato, il giorno stesso, riferite le novità emerse dagli interrogatori, si delibera di far confermare da Mora (senza tortura) le sue confessioni, e quindi di costituirlo reo (cioè: porlo in stato di accusa) e dargli tre giorni per presentare le sue difese. Quanto a Piazza, siccome la sua confessione originaria era stata “sminuita” dalle confessioni successive di Mora, bisognava ammonirlo a aggiungere qualcosa, altrimenti la sua immunità sarebbe stata revocata e sarebbe stato anch’esso costituito reo con termine di tre giorni per le difese.
Si mette male anche per Piazza, insomma: Mora ha inguaiato pure lui. (Manzoni nota una punta di poco cristiano odio nel povero barbiere, ma voi che avreste fatto al posto suo?)

Lo stesso 1 luglio, si richiama Piazza. Gli chiedono se ha qualcosa da aggiungere, ma lui risponde di no. Gli domandano se ha dato qualcosa al Mora, e lui nega; se il Mora gli ha dato l’unguento più volte, e lui dice una volta sola. Allora gli contestano “che pur si legge in processo” che le cose sono andate diversamente. 
Piazza qui è confuso. Si inventa di aver unto in più luoghi, oltre che alla Vedra, ma non sa andare oltre. I commissari allora lo avvertono che l’immunità non gli può essere confermata (Piazza deve essere sconvolto, oppure non ha capito, perché non reagisce sul momento): Piazza quindi cambia versione; conferma di aver dato a Mora la “spuma de’ morti”, che gli sarebbe stata data a sua volta da un monatto di cui ignora il nome (vedete qui il procedimento per tentativi, a tentoni, di cui come vedremo sarà maestro Baruello). Qui anzi Piazza ha un colpo di genio: l’unguento fu da lui usato perché Mora gli aveva promesso molti soldi perché “una persona grande”, cioè un personaggio importante, “gli aveva promesso una gran quantità di denari, per fare tal cosa”: ma Mora non gli aveva mai rivelato l’identità della “persona grande”. 
Gli inquirenti sono entusiasti: finalmente si sta delineando un vero complotto, che non è mai tale se ne fanno parte solo un barbiere e qualche altro spiantato: sono entrati in ballo anche i banchieri (antesignani dell’odierno Soros e della finanza ebraica…). Notate che però l’impunità non è stata confermata a Piazza, che quindi si trova (anche se forse non l’ha ancora capito) di nuovo con tutti i piedi nel baratro.
Ah! le banche (questa però non è milanese…)
Il 2 luglio la storia ha una svolta importante perché, dopo che era stato arrestato il cognato (Girolamo Bertoni), si costituisce Stefano Baruello, il prossimo grande protagonista dell’inchiesta. Gli chiedono innanziutto dell’unguento nell’ampollina che la moglie del Foresaro aveva nascosto nelle pudenda: lui spiega che si tratta di un composto di sua fattura, chiamato dormìa, che serve (come suggerisce il nome) a dormire, e  che lui stesso lo aveva più volte sperimentato, perché negli attacchi di mal francese trovava difficoltà a addormentarsi. Per il momento tutto finisce lì.
Dopodiché, il 2, richiamano Mora. Gli chiedono stavolta di dire il nome della “persona grande” che gli avrebbe dato i soldi, ma Mora cade dalle nuvole; quando lo invitano a dire tutto quel che sa, risponde cupo:

la verità io l’ho detta, quando sono stato tormentato, et ho detto anche d’avantaggio.

Insomma, non solo non ha niente altro da dire, ma è a tanto così dal ritrattare nuovamente tutto.
Stavolta si decide di non insistere (tanto ormai...) Gli danno due giorni (ma non dovevano essere tre?) per le difese, e idem anche a Piazza.
Il notaio Mauro, nominato difensore d’ufficio del Mora, dichiara di non poter accettare l’incarico, non essendo procuratore; andrà comunque a parlare col Mora, ma solo “per darli gusto”. Torna e dice che Mora è ritornato alla sua primitiva versione: “non ha fallato, e che quello l’ha detto per i tormenti”; ha chiesto comunque di avere un altro difensore (e un nuovo termine). Anche il difensore di Piazza, Giovan Battista Cislago, fece istanza di proroga; il Senato il 6 luglio concesse una dilazione fino al 7 (grande proroga invero! Ma tanto, per quel che serviva la difesa…)
L’8 luglio fa intanto la sua comparsa un nuovo personaggio: Giacinto Maganza, detto il Romano, un uomo chiaramente disturbato (pazzo, forsennato, bestiale, imbecille lo definisce Verri). 
Arrestato in provincia, per aver unto in diversi luoghi (lui ricorda Barlassina, Meda e Birago), si fa avanti spontaneamente (spera di entrare nella squadra del bargello) per confessare, in sostanza, un’ampia congiura. Dietro c’è un banchiere, di cui peraltro non sa il nome (è chiaro: ci sono dei soldi, e quindi dev’esserci un banchiere; il complottismo funziona sempre allo stesso modo, allora e oggi). Del complotto fanno parte, ed è impressionante la coincidenza dei nomi, Baruello e i due Forbisari. Dice di aver spesso cercato “bisse” (oltre che “zatti”, cioè rospi, e “ghezzi”, cioè ramarri) con cui preparare l’unguento, assieme a Francesco Bertone, cognato di Baruello. (Ma quindi l’unto di Mora non si faceva con la bava dei morti appestati?) Nomina anche molti altri, senza farne il nome preciso però: ricorda come luoghi di congiure e persino di unzioni alcune locande, come la Rosa d’Oro, le Sei Dita, il Gambero (unzioni che avrebbe effettuato, dice, perché Baruello voleva fare “una burla a uno”!)  Alla domanda: ma come mai gli altri morivano per le unzioni, e tu no, pur toccando l’unto? Risponde ingenuamente “el sta alle volte alla buona complessione delle persone”. Il 9 viene richiamato e stavolta tira in ballo anche Mora, in casa del quale, dice, si fabbricavano gli unti. Fornisce una vivida descrizione della vita di questi sfaccendati, sempre in giro a mangiare e bere alle osterie, provvedendo per la prima volta una serie di riscontri di luoghi e date alla trama finora un po’ tenue della congiura. Gli unti che lui Maganza, di sua spontanea volontà (mosso solo dal dispetto: in quelle terre, infatti, aveva “ricevuto dei dispresii”), aveva prodigato nel Monzese, gli erano stati dati da Baruello. Da notare che, finora, Maganza non ha mai menzionato Piazza, che pure dovebbe essere al centro della congiura. 
Finirà anche lui sul patibolo (e come ti sbagli?)

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