A questo punto (è il 27 giugno) richiamano Piazza, che deve nuovamente confermare, con qualche tratto di corda “ad expurgandam infamiam”, le sue confessioni. E qui, facciamo una parentesi.
Manzoni spiega bene il senso della tortura confermativa: sin dal diritto romano, le accuse o le testimonianze di persone “infami ” (schiavi o gladiatori) non valevano contro gli uomini liberi. Nel diritto comune, si estese il principio anche alle accuse e testimonianze di rei confessi o condannati. Perché potessero valere processualmente, perciò, queste accuse e confessioni dovevano essere confermate davanti alla minaccia della tortura: “se dunque, dopo che un reo s’è fatto accusatore d’altri, gli s’intima, o di ritrattar l’accusa, o di sottoporsi ai tormenti, e lui persiste nell’accusa…il suo detto diventa credibile: la tortura ha purgato l’infamia, restituendo a quel detto l’autorità che non poteva avere dal carattere della persona” (C.I., cap. IV).
Gli inquirenti vogliono irrobustire il fascicolo contro Mora: cosa gli diceva quando si incontravano? Trattava anche con altri? Gli dava denari? Ma Piazza ripete quel che ha già detto. Gli inquirenti fanno la faccia feroce: che tra lui e Mora non fosse passato altro “ha molto dell’inverosimile” (e ti credo); badi che, se non farà una confessione un po’ più circostanziata, non è detto che gli potrà essere confermata l’immunità. Piazza ripete che il barbiere lo aveva incontrato in corso di Porta Ticinese con altri tre (questo è il punto che suscitava lo sconcerto di Pietro Verri: e anche il nostro) e gli aveva detto di passare da lui che gli avrebbe dato un’unzione; dopodiché, in bottega, gli disse che serviva
a ongere le muraglie per fare morire le genti
Chi erano quei tre? Non lo sa, ma sospetta che fossero dei bottegai vicini del barbiere (un fusaro e un calzolaio). Ripete che non sa da dove gli provenisse l’impedimento a parlare, forse dall’acqua che gli aveva dato da bere il barbiere. Tirato quindi sulla corda, e poi riportato giù, promette di pensarci bene in carcere, per il caso che gli venisse in mente qualcosa, e di riferirla. Anzi, quando è appena uscito, ritorna indietro e fa dei nomi: un tal Stefano Baruello, uno che non si sa bene cosa faccia, tira di spada, “et è un grande bestemmiatore”, è molto intimo del barbiere, come pure “li forbisari padre e figlio”, che hanno pure loro una cattiva fama. A questo punto dei testimoni dicono che Girolamo Migliavacca detto il Foresaro o Forbiciaro (cioè uno che ripara e affila le forbici per tagliar l’oro) avrebbe detto (ma tu pensa che discrezione) che “voleva far morire delle altre donne”, mentre il di lui figlio, Gaspare detto il Forbisaro, si era raccomandato con la moglie di dire la verità, che cioè lui in queste cose non c’entrava. In una ispezione a casa di Girolamo, la moglie “nascose qualcosa fra le cosce”. La nuora (moglie di Gaspare) dice che si era trattato di un vasetto “con dentro non so che oglio” che la suocera usava per medicare una sua irritazione e che le aveva portato il marito, che a sua volta lo usava assieme a Baruello.

Tralasciando alcune vicende minori relative al figlio del barbiere, viene finalmente (il 27 stesso) richiamato Mora. Gli chiedono nuovamente cosa c’è nell’ampolla, e lui ripete la lista dei componenti. Gli chiedono perché aveva stracciato un foglio all’arrivo dell’uditore: dice di averlo fatto per “inavertenza”, e che se gliela ricompongono gli verrà anche in mente chi gliela avesse data. Nega di aver mai usato l’acqua con lo smoglio, né lo smoglio stesso; non sapeva nemmeno di avercelo in casa. Conferma che fa “olio di lucerte”: lo usa per le “aperture”, da ultimo lo ha usato per un certo Saracco e “gli ha fatto gran servitio”. Dice che il vasetto di olio per Piazza questi glielo avrebbe dovuto pagare “quattro, o cinque parpaiole”, “perché la robba costa”. Dice di conoscere “di vista” Baruello. Non ha però mai avuto a che fare con lui né con il Forbesaro (“sono gente da lasciarli fare il fatto loro”, perché hanno sempre grane con la polizia). A questo punto gli chiedono a brutto muso: sei tu che hai dato l’unzione con cui Piazza ha imbrattato le muraglie? Qui Mora finalmente capisce, si prende la testa fra le mani, e poi prorompe: “signore no mai de no, mai in eterno farò di queste cose”. Grido di un’anima innocente che capisce per la prima volta in che trappola infernale è caduto. E se, chiedono i giudici, il Piazza gli dirà queste cose in faccia? Gli griderà che è un infame, risponde. Così viene introdotto appunto Piazza, che ripete le sue accuse. Mora protesta: non si troverà mai questo, non siete mai stato a casa mia. Visto che entrambi restano fermi sulle loro posizioni, vengono rimandati in carcere. Viene interrogata la moglie di Girolamo Migliavacca: la storia della boccetta viene confermata (era una pomata che le aveva dato il marito per curare un’infezione che aveva e che le aveva attaccato lui, e quando aveva visto gli inquirenti perquisire l’aveva nascosta, nel timore che pensassero chissà che cosa.) I medici che la esaminano dicono che la poveretta ha il mal francese, ma che cosa ci sia nell’ampollina non ne hanno idea. Piazza insiste, il giorno dopo: se Mora continua a ripetere che non sono mai stato a casa sua, interrogate Baldassar Litta. Questi viene convocato. Dichiara che non ha mai visto Piazza in casa di Mora; però li ha visti parlare varie volte sull’uscio di Mora, mentre Piazza era con un carretto di morti. Un altro testimone dice che forse Piazza e Mora erano amici, ma non lo sapeva per certo, né sapeva se Piazza fosse mai stato in casa di Mora. Anche un terzo testimone nega (nega pure che Mora abbia mai dato un unguento a Piazza). Passano due giorni. Siamo adesso al 30 giugno. Mora viene nuovamente interrogato. Stavolta gli inquirenti si mostrano molto più aggressivi: insistono nel farsi spiegare perché Mora ha stracciato il foglio durante la perquisizione (lui prima dice che era roba di nessuna importanza e che l’aveva fatto distrattamente, poi dice che era la ricetta del suo “elettuario”, cioè di un unguento per ungersi i polsi che dava immunità alla peste: lui lo aveva personalmente usato più volte restando sempre indenne alla peste) e perché continuasse a negare di frequentare Piazza (ma lui giustamente risponde che non l’aveva mai negato, aveva solo detto che non era mai entrato in casa sua e questo era vero, come tutti i testimoni invocati da Piazza stesso avevano confermato). Mora continua a tener ferma la sua versione: Piazza mente, inspiegabilmente. Ma, come vedremo, Mora è meno resistente di Piazza. Viene portato alla tortura, e qui, dopo una breve resistenza, cede.

Capisce cosa vogliono gli inquirenti (a un certo punto, quasi urlando, esclama: “vedete quello che volete che dica che lo dirò”: una frase che è un po’ il riassunto di tutto il processo) e decide di darglielo. Ingrandendo pian piano l’invenzione, dice ora di aver dato a Piazza un vasetto pieno di un unguento composto di tre elementi: sterco, “di quella materia che esce dalla boca de’ morti, che sono sui carri” (quest’ingrediente, aggiuge, glielo aveva dato Piazza: punto cruciale per la sorte processuale di Piazza), e infine lo smoglio della caldara, in cui stemperava tutto il materiale, la notte nel cortile, in modo che nessuno vedesse. Vediamo quasi gli inquirenti fregarsi le mani. Gli chiedono: ma a che scopo tutto ciò? Mora, a questo punto animato da una (comprensibile) sete di vendetta, racconta che Piazza gli aveva spiegato che ungendo i muri con quell’intruglio, si sarebbe ammalata tanta gente “et io avrei guadagnato assai col mio elettuario”. Una spiegazione, come peraltro tutto il resto, alquanto bizzarra (come obietta Verri: c’era forse penuria di malati, perché Mora potesse vendergli il suo elettuario?); ma i giudici sono di bocca buona. Chi erano i complici? Mora prima dice di non saperlo, poi dice che erano il Baruello e i Forbisari, tanto amici di Piazza. In totale dice di aver dato al Piazza cinque o sei volte l’unguento. Gli fanno dare un altro tratto di corda, per purgar l’infamia, e lo mandano via. Notate che non c’è un particolare che tenga, in tutta la confessione di Mora: a cominciare dagli ingredienti dell’intruglio. Ma i commissari, tanto solerti a scoprire o inventare incongruenze e contraddizioni quando serve a giustificare la tortura, qui se ne stano tutti belli tranquilli.
Lascia un commento