Il 26 Piazza ritorna nella stanza degli interrogatori, ma la situazione adesso è radicalmente cambiata. La sera prima, in carcere, ha “stragiudizialmente” detto qualcosa all’uditore, in presenza anche del notaio; viene invitato a  ripeterlo in questa sede. Sa chi fabbrichi le unzioni? Risposta di Piazza: a me (l’unzione) l’ha data il barbiere. Che barbiere? Un tal Gian Giacomo, non sa il cognome. Gliene ha dato tanto quanto starebbe dentro quel calamaio sul tavolo, dice, era giallo e duro. Erano amici col barbiere? “È amico, signore sì, di buon dì buon anno”, cioè è un conoscente di quelli con cui ci si saluta e ci si fanno gli auguri di buone feste. Piazza dice che sette-otto giorni prima, il barbiere, assieme a tre o quattro persone di cui al momento non ricorda il nome, lo mandò a chiamare mentre passava. Dice che il barbiere gli aveva promesso, dopo che avesse fatto le unzioni, di dargli “una mano de denari”. Ma perché il barbiere faceva così? Piazza non lo sa: l’unguento però era “velenato”, tanto che il barbiere gli aveva fatto bere “una certa acqua” perché si preservasse dal veleno dell’unguento. 
Pietro Verri
A ben vedere Piazza non è in grado di aggiungere molti particolari. Non conosce gli scopi del barbiere né se abbia complici o istigatori; sui luoghi delle unzioni ripete solo quello che già si sa e che gli è stato detto, senza aggiungere nulla (anzi, come nota Piero Clini, afferma di aver unto anche sul lato sinistro della via, cioè il lato della bottega di Mora, dove invece, per i testimoni, non era affatto stato). Perché non ha confessato prima? Non ne ha idea – a meno che, ipotizza, non sia l’effetto dell’acqua datagli dal barbiere (è il primo comparire del topos della magia che impedisce la confessione  - maleficium taciturnitatis -, che raggiungerà i suoi fastigi con un altro imputato, come vedremo). Dice solo che “non poteva parlare”, come per effetto di una forza esterna. Che però miracolosamente è cessata la sera prima… Dice infine che il barbiere non l’ha pagato.
Qui finisce il terzo interrogatorio di Piazza: la macchina infernale si è messa in moto. E’ chiaro che la “confessione” di Piazza  è dovuta alla promessa di impunità che uditore e notaio devono avergli fatto, la sera avanti, nel carcere. Gli avranno detto: figliolo, la tua situazione è disperata; sei stato visto a ungere, verrai condannato, che confessi o meno. Ma se invece ci consegni  quello che l’unzione la fabbricava, te la puoi ancora cavare: la grida contro le unzioni prevede infatti che puoi avere l’impunità, e magari chissà anche un bel premio in denaro, se confessi qualcosa di utile alle indagini. Che dici? Meglio uscire, dopo una bella confessione e una tiratina alla crda fatta così per forma, oppure sopportare chissà quante altre sedute di tortura e finire poi ignobilmente sulla forca? Decisamente, un consiglio da seguire al volo. Certo la verosimiglianza del racconto, diciamo, lascia un po’ a desiderare, e i critici, come Verri, hanno buon gioco a ridere della credulità dei giudici (Mora e Piazza si conoscevano appena: si mettono a parlare di unzioni così all’improvviso, col rischio d’essere denunciati, e per di più in presenza di altre persone? Un veleno così micidiale può essere maneggiato impunemente? E chi, come Mora e Piazza, è responsabile di delitti del genere, se ne resta tranquillo a casa, pur dopo esser venuto a conscenza dela scoperta delle unzioni, anziché scappare a gambe levate?). 
Istradati dalle indicazioni di Piazza, i commissari vanno in cerca del barbiere. Si tratta di Gian Giacomo Mora. Lo arrestano assieme al figlio. Mora dà le chiavi di bottega all’uditore e dice ingenuamente: “è venuta per quell’unguento; vostra signoria lo vede là, et aponto quel vasettino l’havevo apparechiato per darlo al commissario, ma non è venuto a pigliarlo, in grazia di Dio non ho fallato: può sparagnare di farmi tenere in ceppi”. Evidentemente il disgraziato pensa che lo arrestino per aver violato la promessa a Piazza di dargli il vasetto. La bottega del barbiere, com’è ovvio trattandosi di una professione contigua a quella del medico, del chirurgo e del farmacista, è piena di ampolle e vasetti dai contenuti più diversi: Mora spiega di che si tratta e sembra fiducioso (nessuno del resto lo ha avvisato di cosa lo si sospetta, il suo nome è stato fatto da Piazza poche ore prima e solo ai commissari). Nel cortile, dentro un forno, viene trovata una caldaia di rame con poca acqua, al fondo un unto giallo e bianco. Chiedono a Mora di che si tratti: “è smoglio” risponde (ranno, con cui si facevano bollire in acqua i vestiti per lavarli). Basterà quel pentolone per perderlo. Eppure è dura da credere che un unzione così venefica potesse esser lasciata così all’aperto, alla portata di tutta la famiglia di Mora; e per di più questi se ne dovrebbe essere rimasto tranquillo per due giorni, pur sapendo di essere il colpevole e che i suoi crimini erano stati scoperti,  osserva giustamente Verri.
 Il 26 medesimo inizia l’interrogatorio di Mora. Per prima cosa conferma la veridicità dell’inventario delle cose trovate nella bottega. Sulla caldaia di smoglio, dice che non l’ha fatta lui, ma le donne, e che lui non se ne impiccia. Conosce dei commissari alla sanità? Sì, tre: uno è stato arrestato. Non ne ricorda il nome, ma è figlio di “uno che fa il coriero”. Lo conosce perchè passa spesso davanti alla bottega e di lì scambiano qualche parola. Doveva passare il 25 perché Mora doveva dargli un vasetto: un vasetto di “onto per ongersi li polsi per preservarsi dal male contagioso”, ma poi è stato arrestato e non ha potuto darglielo. 
Il vasetto, dunque, esisteva davvero: su questa coincidenza (come vedremo, innocente) tra l’accusa improvvisata di Piazza e la verità si baserà tutta l’architettura delle condanne.
Mora descrive quindi la composizione dell’unguento (olio, cera, salvia, rosmarino e altra roba innocua). Ha idea del perché sia stato arrestato Piazza? Risponde: tutti dicono perché è accusato di aver unto le mura e le porte. Tra l’altro, aggiunge Mora, anche la porta della mia bottega è stata unta. Non aveva fatto ancora nulla per levare l’unzione, perché voleva che prima “la giustizia lo visitasse”. Come vedete, Mora è un autentico  ingenuo. Gli chiedono perché allora non ha sollecitato una visita delle autorità all’unzione della bottega, e lui risponde che se ne erano incaricati due conoscenti, e che poi gli è passato di mente. Gli chiedono quindi se abbia avuto altri rapporti con Piazza. Dice di no, salvo che, circa un anno prima, gli aveva chiesto in prestito “un serviciale”, che poi gli aveva restituito.
Viene quindi interrogato il figlio, Paolo Ieronimo. Il giovanotto conferma che la caldaia conteneva smoglio, e che è da almeno un mese che non viene usata perché non si son più lavati i panni. E’ da un po’ che non vede Piazza, anche se il giorno delle unzioni (dubita che sia Piazza il colpevole, perché il commissario non andava mai rasente i muri, ma sempre in mezzo alla via) era passato alla bottega, verso le nove.
La moglie di Mora, interrogata, conferma la versione del marito e del figlio sulla caldaia. Un informatore dei birri, in prigione, riferisce di aver saputo dal Piazza che, a fare gli unguenti, erano “due barbieri per porta” (?) L’unzione comincia ad assumere i connotati fantastici che poi verranno consolidati dalla sentenza. Anche perché, nonostante gli arresti (ce ne sono stati anche altrove, ad es. a Pavia), le unzioni continuano imperterrite e non accennano a smettere.
A questo punto saltano fuori due vicende apparentemente scollegate, ma fino a un certo punto. Un tale Gariboldi, che lavora come scrivano per il capitano di giustizia, viene sentito dire con grande sicurezza, davanti a testimoni, che sì, Piazza viene torturato, ma non confesserà mai. Come faceva a saperlo? Tanto più che Piazza ha poi dichiarato di non essere riuscito a confessare non perché non volesse, ma perché qualche forza esterna glielo impediva? Sarà mica lui a avergli fatto un incantesimo? Inoltre, dei ragazzi sono stati visti nei dintorni (fuori dei bastioni di Porta Orientale) catturare lucertole; richiesti cosa ne facessero, rispondono che le vendevano al barbiere (cioè Mora) che glieli pagava bene. Ma la storia del Gariboldi, chiunque fosse, finisce qui: nel fascicolo non se ne fa più parola.
Gli inquirenti decidono di procedere, diciamo così, anche a una perizia sul famoso “smoglio” trovato in casa di Mora. Chiamano due esperte, cioè due lavandaie, e due “fisici”, cioè medici, a esaminare lo smoglio. Tutti e quattro, pur incapaci di stabilire precisamente cosa fosse, dicono che non può trattarsi per colore, odore e consistenza, di smoglio, ma che deve trattarsi di qualche altra “forfanteria”. Insomma per Mora le cose si mettono male.

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