Viene sentita allora Ortensia Castiglioni, moglie di Alessandro Tradati, abitante proprio nella casa identificata dal parroco. Riferisce che la mattina precedente sul presto (“circa le due ore di giorno”)  avevano trovato la loro porta e i muri imbrattati “di una certa cosa gialla, et in grande quantità”: allora avevano affumicato tutto, come rpescriveva la prassi. All’accorrere dei vicini, alcune donne subito dicono che “era stato visto a ongere il commissario genero della comadre Paola”. 
Subito dopo viene chiamata tal Caterina Trocazzani, vedova Rosa. Questa fa la celebre dichiarazione riportata in dettaglio da Manzoni al principio della Colonna Infame. In sintesi: la mattina prima (“erano sonate di poco le otto hore”) si era affacciata alla finestra della sua “lobbietta” che “guarda verso il Carobbio” e aveva visto un tipo con una cappa nera e un cappello calato sugli occhi venire dalla parte del Carobbio il quale 

aveva una carta piegata al longo in mano sopra la quale metteva su le mani, che pareva che scrivesse;

poi l’uomo entra nella Vedra e “si fa appresso alla muraglia delle case” e, man mano che procedeva, “tirava con le mani dietro al muro”. Alla vedova Rosa allora viene in mente: non sarà mica uno di quelli che nei giorni scorsi “andavano ongendo le muraglie”? Lo segue con gli occhi spostandosi da una stanza all’altra (doveva avere una casa di qualche ampiezza) e vede che il tizio continua a toccare i muri. A un certo punto il tizio si imbatte in un altro tale, che la vedova non conosceva, e lo saluta e se ne va. La vedova chiede a questo tale, quando le si avvicina, chi fosse il tizio che aveva salutato prima, e quello le risponde: è un commissario alla sanità.
Dopodiché ripete la solita storia: tutti vanno a vedere e vedono muri e portoni unti. La vedova dichiara di non aver visto in faccia il commissario alla sanità, e quindi di non saperlo riconoscere, ma era “uomo di grandezza comune, vestito di saglia nera con un cappello che cascano le ali nel volto”; anche Ottavia moglie del sergente Bono lo conosceva. La Ottavia viene immediatamente sentita: anche lei ripete che il tizio portava un cappello largo, che copriva il viso, un ferraiolo nero, e aveva in mano una carta, su cui muoveva la mano come se scrivesse, e poi fregò la mano un paio di volte sul muro. Non aveva idea di chi fosse; la Rosa le aveva detto che era un commissario alla sanità. Neanche lei ha visto le unzioni.
A questo punto viene chiamato tal Pietro Pulicelli. Questi ha incontrato un tipo vestito di nero, con la barba rossa, che però non conosce di nome, ma solo di vista, e sa che è “commissario, o sia paradore”; gli dissero poi che aveva unto le porte e che si chiamava Guglielmo; più tardi, quando passò un carro di morti di peste, la gente disse che su quel carro c’era quel tal Guglielmo, e lui aveva guardato e l’aveva riconosciuto.
Quello stesso giorno “Guglielmo commissario” viene arrestato. Viene perquisita la sua casa, ma senza trovare nulla di sospetto. Si chiama Guglielmo Piazza, e adesso tocca a lui essere interrogato. E’ grande di statura, di pelo rosso, e dichiara di possedere una cappa e un ferraiolo nero e un cappello. Da meno di un mese fa il commissario “sopra la sanità”: in sostanza, si occupa di sequestrare i malati e far portar via gli infermi e i morti. Prima, “attendevo a scartezar filisello”. Il giorno prima, era effettivamente andato al Carrobbio per prender nota degli ammalati di Porta Ticinese. Aveva parlato con quelli che lo avevano cercato. Alla Vedra c’era stato solo una volta “con li signori deputati della parochia”. Dice di non saper nulla di imbrattamenti sui muri di Porta Ticinese: “mi non lo so, perché non mi fermo niente in Porta Ticinese”. 
Gli inquirenti gli obiettano che, essendo lui abitante in Porta Ticinese e essendo commissario di Porta Ticinese, “non è verisimile che non sappi se vi sii alcuna novità, particolarmente in materia di questi ontumi, sendo anche cosa, che appartiene al suo ufficio”; ma lui insiste (sto sempre fuori a far portar via i malati, e “vado poi via a far li fatti miei”). Gli inquisitori perdono la pazienza: insomma, ieri c’erano le unzioni, come diamine è possibile che proprio lui non ne sapesse niente? Ma Piazza ripete che non ne sapeva nulla. A questo punto gli chiedono chi fossero questi “deputati” con cui stava alla Vedra. Prima nega di saperne il nome, poi ammette che uno è Giulio Lampugnano. Gli inquirenti a questo punto sono insospettiti: ci spieghi un po’ perché non solo non sa nulla delle unzioni, ma dice pure di non conoscere i deputati con cui deve per forza relazionarsi per lavoro. Se non si sveglia, lo metteranno alla corda. Qui Piazza mostra un po’ di orgoglio: “se me la vogliono anche far attaccar al collo [la corda] lo faccino, che di queste cose che mi hanno interrogato non so niente”. 
Detto fatto: lo portano alla stanza delle torture. Lo spogliano e lo legano alla corda; lui strilla, giura di dire la verità, supplica che lo tirino giù e gli diano dell’acqua, ma insiste di non sapere altro. Vista l’inutilità di continuare, lo rivestono e lo rimandano in carcere.
Molti commentatori hanno osservato che il processo ha avuto due fasi: la prima, che riguarda tutti gli imputati principali, è all’insegna della più assoluta e scatenata violenza: si tortura per il minimo pretesto, si inventano contraddizioni anche quando non ve ne sono, si spremono gli imputati fino all’inverosimile. Ma dopo l’omicidio giudiziale di Piazza, Mora, Maganza e i Migliavacca, qualcosa cambia; diciamo, un po’ perché il clima, con l’attenuarsi dell’epidemia, si sta rasserenando, e un po’ (forse soprattutto) perché il fatto che sia stato coinvolto un pezzo grosso impone ai giudici maggiori cautele: l’uso della tortura diviene meno frequente, comunque (anche perché in assenza di altre contropartite positive, come la promessa d’impunità) poco fruttuoso, e infatti tutti o quasi gli imputati della seconda fase saranno assolti. Sta comunque di fatto che, pur senza impiegare la tortura contro Padilla (la cosa era vietata dal rango e dalla posizione dell’imputato), il processo contro di lui continuò con discreto accanimento, e di fatto fu assolto solo quasi tre anni dopo il suo arresto, periodo nel quale rimase in stretta detenzione. Ma torniamo alla prima fase.
Il capitano e il notaio riferiscono al Senato. Il Senato decide che non solo Piazza va torturato nuovamente (non si sa perché, ma tanto non c'era bisogno di motivi contro feccia del genere) ma che va messo alla corda anche il cognato, Matteo Furno (e anche qui non si sa perché: finora il suo nome nel processo non è comparso). Così il 25 giugno viene richiamato Piazza. Gli si contestano le sue “inverisimilitudini”, ma lui insiste: non ricorda di aver portato con sé alcun libro o carta, e conferma di non recarsi alla Vedra perché c’è solo “una casa serrata dalli deputati”. I commissari lo rimettono alla tortura (è la seconda volta) e lui: “mi amazzano, che l’arò a caro, perché la verità l’ho detta”. Il verbale della tortura è straziante: Piazza geme, grida, invoca Dio, chiede pietà, domanda “che volete che dica?”, esclama “non so nagotta, non so niente, ho detto quello che so”. La realtà è che il poveretto non ha proprio idea di cosa gli inquirenti vogliano che dica. Comunque, anche stavolta, nulla da fare: lo rivestono e lo rimandano in carcere.

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