Il processo agli untori ci è noto in massima parte grazie agli atti del procedimento contro uno degli imputati posteriori, Padilla: uno dei pochi che, in possesso di ricchezza, nobiltà e amicizie potenti, riuscirono a cavarsela.
Le premesse sono ben conosciute. Dopo che da parecchi mesi la peste aveva imperversato intorno a Milano, portata (a quanto oggi si ritiene) nel settembre 1629 dalle truppe spagnole giunte in Italia per la guerra per la successione di Mantova e del Monferrato (la guerra era iniziata già a gennaio 1628), nel dicembre 1629 la peste era stabilmente entrata in città. Come si sa, le autorità fecero di tutto per minimizzare, e rinviare le decisioni necessarie, ma la situazione, con l’appressarsi della primavera e poi dell’estate, si fece rapidamente insostenibile. Così a fine aprile si cominciano a disporre le regole che dureranno fino alla fine dell’epidemia: e siccome la popolazione protesta e continua a negare l’evidenza, Settala il giorno di pentecoste fece condurre al lazzaretto su carro scoperto i cadaveri nudi dei membri della famiglia Turate, così che tutti potessero vedere coi propri occhi “li segni veri e reali della peste”. Finché a metà maggio 1630 si scoprono per la prima volta le unzioni. 
Lodovico Settala
Il caso più clamoroso avviene il 17 maggio quando, durante una processione in Duomo, si nota che alcune persone vanno ungendo l’ “assata” che separa il settore maschile da quello femminile (Tadino dice “i banchi da sedere”, però colloca l’evento a giugno; Ripamonti parla di vistose unzioni sui muri a metà aprile): c’è un fuggi fuggi generale, dopodiché viene istituita una commissione d’inchiesta che scopre pochissimi tratti unti di questa assata, con così poca materia che non ce n’era abbastanza per esaminarla. Tuttavia il clero assume una posizione intransigente e fa portare fuori sia l’assata sia tutti i banchi. L’effetto sulla popolazione è tremendo: da quel giorno, scoppia una sorta di epidemia o mania delle unzioni (nel senso in cui Trevor-Roper parlava di “witch-craze” per le epidemie di stregoneria), che vengono trovate un po’ dappertutto  a cominciare dall’unzione “generale” “delle muraglie e degli usci” scoperta la mattina del 18. Viene così emanata (il 19 o il 21 maggio) una grida Contro coloro che sono andati ungendo le porte, catenacci, e muri di questa città nella quale, dopo una descrizione del fenomeno, si promette a chi denunciasse i colpevoli un premio di duecento scudi e, se complici del crimine (purché non il principale), anche l’amnistia. Il provvedimento servì, contro le aspettative dell’epoca, non a  reprimere ma a fomentare ulteriormente il fenomeno, rafforzando la convizione della sua pericolosità. A giugno si diffondono voci di altre unzioni; le autorità sono in estrema allerta, nella popolazione si diffondono panico e isteria. I cronisti, come Ripamonti, raccontano di molti episodi in cui gente del tutto innocua viene catturata per untore e talvolta linciata sul posto (accade a dei giovani turisti francesi che, “non paghi di saziare la vista” guardando il Duomo, “gli andavano con diletto toccando colle mani” e se la cavano per miracolo), e non solo a Milano (succede a due chierici inviati dal cardinal Borromeo in una sua villa a Senago). 
Ripamonti, il ghostwriter del cardinal Federigo
A luglio un’altra grida porterà la ricompensa a 1000 scudi. Ad agosto niente aumenti di premi ma in compenso minacce di punizioni tremende (le stesse applicate ai poveri Piazza e Mora e che vedremo poi). Ma né i processi né le condanne né le minacce fermano le unzioni, che continuano fino alla fine della pestilenza. Ad agosto inoltrato, per esempio, quindi dopo l’esecuzione di Piazza e Mora, viene arrestato un prete che ungeva al Verziere, e un altro ancora a S. Ambrogio. Sembra che gli arresti continuassero fino al 1633 (cioè fino all’assoluzione di Padilla, a peste finita da due anni) e che in totale siano state arrestate, nel Milanese, circa mille persone. Ma unzioni a Milano v’erano state anche nella precedente pestilenza, del 1576 (quella cioè in cui si distinse san Carlo Borromeo).
Tra gli storici moderni, come si sa, la questione delle unzioni è tuttora dibattuta: non tanto per la loro realtà storica, che in genere viene considerata ormai acquisita (le testimonianze sono troppe e troppo indipendenti per poterle ignorare), quanto per il loro significato: infatti, la loro effettiva capacità di infettare deve evidentemente considerarsi nulla o pressappoco (e questo già lo pensavano in parecchi all’epoca, come vedremo). Si tratta quindi di una ossessione, di una vera e propria psicosi  collettiva. 
All’epoca, come sintetizza bene Nicolini, le teorie prevalenti sull’origine delle unzioni furono due: una di tipo politico (sarebbe stata colpa dei francesi, nemici della Spagna e dunque di Milano) e una che invece incolpava il Diavolo in persona.
Il processo che ci riguarda ha inizio il 22 giugno 1630 (dieci giorni dopo la grande processione per le vie di Milano, che aveva contribuito a difondere ulteriormente la pestilenza). Era stato comunicato al Senato milanese che “hieri mattina” (quindi, il 21) “furono onte con ontioni mortiferi le mura, e porte delle case della Vedra de’ Cittadini”. Il Capitano di Giustizia (Giambattista Visconti) viene dunque incaricato di indagare senza indugio su questo crimine. 
Questo è il Capitano di Giustizia dei Promessi Sposi
Insieme ai birri e al notaio, il Capitano si attiva e in primis interroga il parroco di S. Alessandro, don Castiglioni. Questi riferisce che in Vedra de’ Cittadini aveva sentito gran rumore e visto affumicare i muri in particolare “sotto la porta della casa dove stanno li Tradatti”; aveva così saputo che “un genero della comar Paola che fa il commissario sopra la sanità era stato visto da alcune donne a ungere le muraglie con questi onti, de’ quali altre volte le mura e le porte delle case della città erano state onte, e che avendo loro trovate queste ontioni gli davano il fuoco”. Vanno quindi alla Vedra e constatano che i muri sulla destra sono stati affumicati e che il muro intorno alla casa del barbiere Gian Giacomo Mora (che è però “sull’altro cantone della detta strada della Vedra verso il Carobbio”, cioè sul lato sinistro) era stata “imbiancata di fresco”. Come mai? Risposta: “per levare altre ontioni, che erano sopra essa muraglia”. Testimoni dicono appunto di aver visto in vari luoghi “un unto tirante al giallo”.
Ma insomma, in quel momento di unzioni non c’è traccia: se c’erano, sono state cancellate dal fuoco. C’è solo gente che afferma di averne viste, il giorno prima. E sull’inverosimiglianza dell’intera storia (perché ungere di giorno, colla quasi certezza di essere visti, quando si poteva farlo di notte? Perché poi ungere in generale, per moltiplicare i morti, quasi non ve ne fossero già abbastanza a Milano senza alcun intervento umano? eccetera) hanno insistito in tanti, a cominciare ovviamente da Pietro Verri, sicché non vale la pena ripeterlo ancora (ma va notato che  altri, a partire da Nicolini, sostengono che alcuni, come i monatti, la convenienza a ungere e a moltiplicare i contagi ce l’avrebbero avuta eccome).

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