Leggete queste parole: enfitèusi, usucapione, patto commissorio, anatocìsmo, antìcresi, sinallagma. Le avete mai sentite?
Probabilmente no, almeno se non siete giuristi (cioè professionisti del diritto: avvocati, notai, giudici, professori di giurisprudenza, eccetera), e se non siete nemmeno parenti stretti di qualcuno che lo sia, e che ogni tanto le butta lì. Si tratta infatti di parole tecniche della lingua del diritto: i non specialisti non le adoperano mai. Del resto, raramente chi non è un medico pronuncia la parola ìttero e chi non è un fisico la parola neutrino.
Ma ci sono anche casi – e sono forse i più frequenti – in cui i giuristi usano sì parole della lingua comune, ma attribuendo loro un senso diverso da quello solito. Per esempio, tutti sappiamo cos’è la luce o cos’è una veduta, no? Però nella lingua giuridica luce e veduta non sono un fenomeno fisico o un paesaggio spettacolare, ma sono esempi di un tipo particolare di diritto che si chiama servitù: e quindi, la servitù per il giurista non è la condizione del servo, così come la decadenza non è quella del tardo Impero romano, la confusione non è uno stato di poca chiarezza mentale e il compromesso non è un accordo a metà strada fra le opposte pretese di due persone. D’altra parte, la stessa cosa succede pure nelle altre scienze o arti: il momento in fisica non è una piccola porzione di tempo e l’acciaccatura in musica non è quel che succede quando vi date una martellata su un dito.
Si sa che per comprendere una scienza o un’arte bisogna, per prima cosa, comprenderne il linguaggio.
Accade così anche per il diritto.
Ecco perché, di tanto in tanto, faremo dei post su alcune parole del diritto: non solo perché è utile conoscerle, ma anche perché spesso dietro una singola parola c’è una storia complicata e interessante.
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