Qualcuno ricorderà la questione di fondo nell’Antigone di Sofocle. Polinice, uno dei figli di Edipo, in rivalità col fratello Eteocle, diventato re di Tebe, torna con un esercito da Argo per conquistare il trono. Nella battaglia, entrambi i fratelli-rivali muoiono. Ma il nuovo re (anzi, tiranno) di Tebe, Creonte, già cognato di Edipo perché fratello di Giocasta, decreta che, siccome Polinice si è macchiato di tradimento e anzi di sacrilegio prendendo le armi contro la patria, non potrà essere seppellito, ma dovrà essere lasciato insepolto nella pianura dov’è caduto. Antigone, figlia di Edipo e dunque sorella di Polinice e Eteocle, dichiara però che non rispetterà il decreto di Creonte: seppellire i parenti è una delle leggi “non scritte” degli dei, leggi che esistono da sempre e non hanno un autore (a differenza delle leggi umane, che normalmente recano nell’intestazione il nome di chi la propose).
Antigone prova a seppellire Polinice.
Il significato di queste “leggi non scritte” (àgrafa nòmima) è sempre risultato oscuro agli interpreti (mentre era chiara agli spettatori della tragedia). Così, a partire almeno da Aristotele (nella Retorica), la “legge non scritta” di Antigone diventa, da un lato un imperativo morale, dall’altro quella “legge naturale” che per sua natura, non essendo opera degli uomini, non è propria di un solo popolo o di una città particolare, ma di tutti i popoli e di tutti i tempi.
Se però si guarda al di là della tragedia sofoclea, confrontandolo con altri testi greci, si capisce che l’interpretazione tradizionale è sbagliata.
Infatti, nel V secolo a.C., ad Atene, “legge non scritta” faceva riferimento a un corpus ben preciso e realmente esistente di norme: erano le norme tradizionali, in gran parte di natura rituale (ma ricordate che per gli antichi il rito e la religione avevano un’importanza cruciale, determinando anche chi poteva fare cosa e quando, chi poteva rivestire la tale carica, eccetera), ed erano appannaggio delle famiglie nobili (ghénai) che avevano il monopolio della loro conoscenza e della loro interpretazione (esegesis). E infatti, Plutarco nella Vita di Teseo riferisce che, alla fondazione di Atene, ai nobili (eupatridai, cioè letteralmente “di buona nascita”) venne attribuito in esclusiva il compito “di conoscere le cose divine, di fornire i magistrati, di essere i maestri del diritto ed esegeti delle norme”.
Ebbene, queste norme, effettivamente esistenti, ma non scritte, bensì orali, quindi tramandate a voce all’interno delle famiglie nobili che ne avevano l’esclusiva, prevedevano regole ben precise per la sepoltura; e si trovarono assai presto in conflitto con quelle leggi, stavolta scritte perché adottate in tempi storici e in circostanze determinate dalla città (polis), che sanzionavano il tradimento della patria o il sacrilegio con il divieto di sepoltura entro i confini della città. Di queste leggi ne conosciamo molte; ad esempio, vengono ricordate da Senofonte nelle Elleniche, a proposito del processo agli strateghi delle Arginuse. Ma - e questa è la cosa interessante, che ci conduce a riconsiderare radicalmente il senso della protesta di Antigone - le norme non scritte, tradizionali, non ponevano un dovere generale di seppellire tutti i morti, anche se si fossero macchiati delle colpe più gravi: al contrario, prevedevano questo dovere solo nei confronti dei nobili. Il divieto di sepoltura andava benissimo, invece, se disposto a carico di cittadini non nobili, oppure di schiavi. Lo dice la stessa Antigone: “Chi è morto infatti non è uno schiavo, ma il fratello”. In un’altra tragedia di Sofocle, l’Aiace, Odisseo e Teucro cercano di dissuadere Agamennone, che analogamente sta pensando di non far seppellire Aiace (accusato di tradimento), dicendogli appunto: ma Aiace non è mica uno qualunque, non è uno schiavo: un nobile, anche se è stato nemico, dopo morto bisogna seppellirlo! Ne deriva che la rivendicazione di Antigone dinanzi a Creonte non è una pretesa universalistica, bensì particolaristica: non rivendica un diritto di tutti gi uomini, ma solo il diritto della sua famiglia. Un diritto che Antigone contrappone alla decisione (e all’interesse) della città.
Teseo alle prese col Minotauro.
La decisione di non seppellire un esponente del ghenos resosi colpevole di un grave reato contro la polis, accompagnato com’era dall’esilio e dalla confisca dei beni, equivaleva alla decisione di cancellare del tutto una famiglia o clan nobile dalla città, di epurare i ranghi della nobiltà. Questo era il cuore del problema di Antigone, e di fronte ad esso Sofocle (e quindi la sua eroina) prende una posizione netta: cacciare i nobili, privarli dei diritti politici, non è lecito. Si tratta perciò di una posizione ideologicamente reazionaria e antidemocratica, proprio perché rivendica la intrinseca superiorità dei nobili sul popolo per semplice diritto di nascita, perché rivendica la supremazia del diritto iniziatico-tradizionale dei nobili sul diritto scritto della città. Non è un caso infatti che Sofocle al tempo della caduta della democrazia ateniese ebbe un ruolo importante nella costituzione dei Quattrocento, e quindi della riforma costituzionale che abbatté il regime democratico.
Conseguentemente, l’opposizione tra leggi scritte e non scritte, in Sofocle, è l’espressione mitica di una questione vivacemente dibattuta nell’Atene contemporanea, cioè la misura in cui la polis democratica e le sue istanze avessero la precedenza, dovessero cioè prevalere, sulle pretese dei nobili. Si tratta di uno sviluppo storico generale, che va di pari passo con la comparsa, sulla scena della città, del popolo (demos) e delle sue rivendicazioni politiche. Ecco che nasce un contrasto fra un diritto gentilizio, tradizionale, iniziatico, quindi necessariamente orale, e un diritto invece popolare, generale, applicabile a tutti, e conoscibile da ciascuno, quindi necessariamente scritto. Una vicenda non dissimile a quella che portò a Roma, dopo lunghe lotte, all’adozione della prima legge scritta: le XII Tavole.
Non è un caso che nelle parole di due autentici democratici, come il Pericle di Tucidide e il Teseo di Euripide (nelle Supplici), la questione del dissidio fra leggi scritte e non scritte abbia tutt’altro trattamento. Pericle, nel famoso discorso funebre riportato da Tucidide, ricorda che caratteristica precipua del regime ateniese, diverso da ogni altro in Grecia, è che il potere non è attribuito a pochi, ma alla maggioranza (democrazia), e che chiunque può aspirare alla massime cariche politiche, indipendentemente dalla sua nascita e dalla sua ricchezza. A un certo punto, nel discorso Pericle aggiunge che ad Atene esistono leggi scritte e non scritte, e che anche queste vanno rispettate, “se in caso di violazione determinano un disonore da tutti riconosciuto”.
Pericle.
Quindi Pericle sta dicendo che le leggi non scritte non vincolano di per sé, ma soltanto quando esista su di esse un consenso maggioritario: quel che conta non è più l’origine o l’antichità della legge non scritta, ma il fatto che il demos la sanzioni. E’ chiaro che in questo modo il diritto gentilizio tradizionale perde ogni valore autonomo. E Euripide, per bocca di Teseo, sempre nelle Supplici, dichiara che nella tirannide “non ci sono leggi comuni, ma comanda uno solo, dopo aver fatto della legge una sua proprietà privata. E questa non è più uguaglianza. Una volta scritte le leggi, invece, chi è debole e chi è ricco hanno uguale diritto. E’ lecito ai più deboli, se sono accusati, rispondere alla pari a chi se la passa bene. E il più piccolo vince il grande se ha ragione.” E in un’altra tragedia ancora, l’Ecuba, Euripide associa strettamente la scrittura delle leggi al predominio politico del popolo.
In altri termini, Sofocle definisce la tirannia come la violazione delle leggi non scritte, Euripide invece come la violazione (o meglio, l’assenza) delle leggi scritte. La differenza non potrebbe essere più chiara.
La controversia si risolse (come spesso accade) col mero passare del tempo. Alla fine della guerra del Peloponneso, ristabilitasi la democrazia ateniese, nel 403 a.C. il demos decise di riesaminare tutte le leggi esistenti, di armonizzarle quando fossero in contraddizione, e di trascriverle su pietra; tutte quelle che non fossero state scritte (àgrafai) non sarebbero più state in vigore (“tutte le leggi non trascritte non saranno utilizzate in nessun caso dai magistrati”). E’ indubbio che da questo momento in poi le leggi non scritte gentilizie tradizionali, il cui nome già cambiava significato (da “non scritto” diventava, più banalmente, “non trascritto” a seguito del riesame di tutte le leggi), divennero sempre meno importanti: si affermò il principio, non più che il loro non essere scritte le rendesse superiori a quelle scritte, ma che non essendo scritte non avessero proprio più validità. Il trapasso è mostrato chiaramente nel grande discorso di Andocide Sui misteri. In quel caso, gli avversari di Andocide cercarono senza successo di farlo condannare invocando proprio una legge non scritta, quella cioè che prevedeva che chi si macchiasse di sacrilegio rimanesse àtimos per sempre, nonostante ogni iniziativa della polis per restituirgli i diritti. Quello fu l’ultimo tentativo di invocare le leggi non scritte come normativa prevalente sulla legge scritta.
[…] Polinice. Era una cosa che avevo già sentito ma che riscopro con interessanti dettagli grazie a Luca Simonetti: le “leggi non scritte” erano semplicemente le norme tradizionali riservate alle […]
Grazie a Ivo Silvestro arrivo a questo prezioso approfondimento.
Prezioso perché a millenni di distanza è in grado di proporre una nuova lettura di un testo conosciuto e studiato da tante generazioni, a dimostrazione che il pensiero non smette mi di dare i suoi frutti.
Prezioso perché torna ancora una volta sulla contesa tra diritto naturale e diritto positivo, denunciando almeno in questo caso la forte natura antidemocratica e discriminatoria del supposto diritto naturale.
Ancora prezioso perché l’excursus tra le diverse declinazioni del medesimo tema offerte dagli autori greci dimostra ancora una volta l’irrinunciabilità del contributo al pensiero che solo gli studi classici possono fornire.
Mi permetto aggiungere una mia riflessione.
Quelli oggi sono chiamati diritti universali sono spesso estensioni di diritti non concepiti come tali, ma come elementi di status circoscritti o esclusivi.
Si pensi per esempio al diritto di voto, che nasce come un diritto di censo e soprattutto maschile.
La sacralità della vita, oggi universalmente affermata, è un debito che il pensiero moderno ha con il pensiero cristiano.
Ancora pochi secoli fa, alcuni tra quelli che giustamente sono annoverati tra i padri nobili del pensiero moderno erano favorevoli alla schiavitù, quindi la loro idea di diritti universali non era esattamente la nostra, eppure oggi sono quei diritti che noi oggi proclamiamo tali.
In sintesi, penso che la illuminante scoperta che Antigone in realtà rivendica rivendicasse un privilegio non svuota del tutto il valore simbolico della sua lotta, che ha comunque ispirato tante altre più nobili nei secoli successivi.
Grazie del commento! Sono d’accordo sulla estensione o generalizzazione a tutti di diritti originariamente ristretti a pochi. In ogni caso, non era mia intenzione sminuire la grandezza né della tragedia di Sofocle e delle sue molte possibili letture, né della figura di Antigone.
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Prezioso perché a millenni di distanza è in grado di proporre una nuova lettura di un testo conosciuto e studiato da tante generazioni, a dimostrazione che il pensiero non smette mi di dare i suoi frutti.
Prezioso perché torna ancora una volta sulla contesa tra diritto naturale e diritto positivo, denunciando almeno in questo caso la forte natura antidemocratica e discriminatoria del supposto diritto naturale.
Ancora prezioso perché l’excursus tra le diverse declinazioni del medesimo tema offerte dagli autori greci dimostra ancora una volta l’irrinunciabilità del contributo al pensiero che solo gli studi classici possono fornire.
Mi permetto aggiungere una mia riflessione.
Quelli oggi sono chiamati diritti universali sono spesso estensioni di diritti non concepiti come tali, ma come elementi di status circoscritti o esclusivi.
Si pensi per esempio al diritto di voto, che nasce come un diritto di censo e soprattutto maschile.
La sacralità della vita, oggi universalmente affermata, è un debito che il pensiero moderno ha con il pensiero cristiano.
Ancora pochi secoli fa, alcuni tra quelli che giustamente sono annoverati tra i padri nobili del pensiero moderno erano favorevoli alla schiavitù, quindi la loro idea di diritti universali non era esattamente la nostra, eppure oggi sono quei diritti che noi oggi proclamiamo tali.
In sintesi, penso che la illuminante scoperta che Antigone in realtà rivendica rivendicasse un privilegio non svuota del tutto il valore simbolico della sua lotta, che ha comunque ispirato tante altre più nobili nei secoli successivi.
Grazie del commento! Sono d’accordo sulla estensione o generalizzazione a tutti di diritti originariamente ristretti a pochi. In ogni caso, non era mia intenzione sminuire la grandezza né della tragedia di Sofocle e delle sue molte possibili letture, né della figura di Antigone.