La pena di morte dal punto di vista di due giuristi, uno fascista e uno liberale.
Nel 1931, nelle sue Istituzioni di diritto penale italiano, Vincenzo Manzini scriveva: 

la questione della pena di morte, quantunque abbia dato luogo a interminabili tediosissime diatribe filosofiche e pseudo-giuridiche, non è questione né filosofica, né giuridica. Gli argomenti che si adducono pro o contro la pena di morte, non sono neppure razionalmente decisivi né in un senso né nell’altro, e tanto meno lo possono essere giuridicamente, perché non c’è altro diritto che quello posto dallo Stato. La questione della pena di morte è meramente politica perché può decidersi soltanto con criteri politici.

Poco oltre, aggiungeva: 

Il legislatore del 1889, convintosi che la pena di morte non fosse necessaria, la escluse (…) Ma le condizioni determinate da quell’immane cataclisma sociale che fu la guerra terminata nel 1918, col conseguente incremento della delinquenza politica ed anche della più grave delinquenza comune, persuasero il nostro legislatore, dopo un non breve esperimento, ch’era necessario far luogo alla più energica sanzione penale, a tutela degli interessi dello Stato e della civiltà in genere. Perciò la pena di morte fu ripristinata (…)

e commentava come segue questa reintroduzione fascistissima della pena di morte (chissà poi chi era stato, nel primo dopoguerra, il principale responsabile dell'"incremento della delinquenza politica", eh?): 

L’effetto fu meraviglioso, e tale da dimostrare praticamente tutta la fatuità dei sofismi di quei filosofi che pretendono di dimostrare l’inutilità della pena di morte.

Vincenzo Manzini
Passa la guerra mondiale, cade il fascismo, si cambiano le camicie ma le idee no, anche se bisogna un po' imbellettarle, e Manzini pubblica una nuova versione delle Istituzioni (1946). Ecco quel che scrive, invariato il resto, a proposito dell’evoluzione storica della pena di morte:

Senonché il Governo di coalizione democratica, succeduto al Governo fascista, ritenne opportuno di abolire la pena di morte per i reati preveduti dal codice  penale, sostituendola con l’ergastolo. Di questa soppressione non saremo certamente noi a dolerci (specialmente per ciò che riguarda i delitti politici), nonostante lo spaventoso incremento della più grave delinquenza comune determinato dal presente stato semi-anarchico dell’Italia.

Che bello quel "non saremo certamente noi a dolerci", vero? E pensate che mezzo secolo prima, il più grande penalista italiano dell’Ottocento, Francesco Carrara, nel suo Programma del corso di diritto criminale, Parte generale, si liberava (in grande anticipo) delle puerili obiezioni antifilosofiche di Manzini con quattro parole:

la indagine filosofica sul diritto della società di spingere la punizione fino a dare morte al colpevole (..) non può non dipendere dalla soluzione del problema preambulo sulla genesi razionale del diritto di punire.

E questo è Francesco Carrara
E siccome Carrara conveniva coi suoi maestri del diritto penale liberale che fondamento del diritto di punire è la legge di natura, ne discendeva che la potestà di uccidere andava negata, essendo la legge di natura “essenzialmente conservatrice”: la vita dell’uomo non può essere tolta, salvo che per la necessità presente e immediata di difendere gli altri. 
Quindi, niente pena di morte: e la decisione al riguardo non può non dipendere proprio dalle “tediosissime diatribe” messe in burletta da quel parruccone fascista di Manzini.

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