Abbiamo già parlato della aberrante sentenza del TAR del Lazio sulle cure domiciliari. 
Per fortuna, il 9 febbraio scorso, è arrivata la pronuncia del Consiglio di Stato che ha accolto l’appello del Ministero della Salute contro la sentenza.
Ricordiamo l’antefatto. Un gruppo di medici aveva contestato la circolare del Ministero del 26.4.2021 con cui si riproducevano le linee-guida AIFA per la gestione domiciliare dei pazienti Covid-19. La circolare, secondo i ricorrenti, “anziché dare indicazioni valide sulle terapie da adottare a domicilio”, elencherebbe “le terapie da non adottare”, il che equivarrebbe a un “divieto” che “non corrisponde all’esperienza diretta maturata dai ricorrenti” e sarebbe pertanto lesivo della libertà di cura del medico. Sorprendentemente, il TAR (con sentenza n. 419 del 15.1.2022), pur partendo dalla premessa (corretta) che la circolare non era vincolante, ha poi dato ragione ai ricorrenti: a detta del TAR, “il contenuto della nota ministeriale, imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche, si pone in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicati dalla scienza e dalla deontologia professionale.” 
Avevamo detto che la sentenza era contraddittoria e il Consiglio di Stato è dello stesso avviso. 
Il giudice d’appello ha gioco facile a dimostrare che la circolare del Ministero altro non fa che esporre delle linee-guida, vale a dire delle direttive di massima, su quali siano le best practice da seguire caso per caso, secondo un modello che è ormai diffuso non solo in ambito medico, e che peraltro è un prodotto, da un lato dell’affermarsi della medicina scientifica (evidence-based medicine o EBM), dall’altro della necessità per il SSN di garantire il coordinamento nazionale e internazionale in materia di sanità, tutte competenze attribuite dalla legge appunto al Ministero della Salute e all’AIFA. Ma queste indicazioni non sono affatto vincolanti, nel senso che il medico, in scienza e coscienza, sotto la sua responsabilità, e previo ottenimento del consenso del paziente, può benissimo discostarsene, purché a sua volta “tale prescrizione si fondi su evidenze scientifiche attendibili”. 
Le indicazioni di cui alle linee guida non sono vincolanti, spiega il Consiglio di Stato, proprio perché ogni terapia deve essere individuale e non astratta, cioè deve essere la migliore e la più adatta a quel singolo paziente in quella determinata situazione. Ma per poter garantire ciò, il medico deve anche essere “non solo accurato e prudente nel seguire la evoluzione del caso sottopostogli ma anche e soprattutto preparato sulle leges artis e impeccabile nelle diagnosi (…); aggiornato in relazione non solo alle nuove acquisizioni scientifiche, ma anche allo scrutinio di esse da parte delle società e organizzazioni accreditate e, dunque, alle raccomandazioni ufficializzate con la nuova procedura”. La prescrizione di una terapia non può fondarsi su “intuizioni o improvvisazioni sperimentate sulla pelle dei pazienti” né tantomeno “su un’opinione personale del medico, priva di basi scientifiche e di evidenze cliniche, o su suggestioni e improvvisazioni del momento, alimentati da disinformazione o, addirittura, da un atteggiamento di sospetto nei confronti delle cure ‘ufficiali’”: deve invece essere basata “su evidenze scientifiche e, dunque, su rigorosi studi e precise sperimentazioni cliniche”. Infatti, dice il giudice amministrativo d’appello, “la libertà della scienza non vuol dire anarchia del sapere” e “il fondamentale incontro fra l’autonomia professionale del medico e l’autodeterminazione terapeutica del paziente… non può schiudere la strada ad un pericoloso, e incontrollabile, relativismo terapeutico, ove è cura tutto ciò che il singolo medico o il singolo paziente o entrambi, di comune accordo e, dunque, sulla base di un consenso disinformato, credono sia tale, sulla base di supposizioni o credenza non verificabili alla stregua di criteri oggettivi e, dunque, non falsificabili da nessuno”. E qui il Consiglio di Stato richiama opportunamente la sentenza della Corte Costituzionale (n. 274/2014) sul caso Stamina. Come scrive efficacemente la sentenza, “l’individualità della cura in rapporto al singolo paziente non è e non può essere mai, insomma, l’individualismo della cura”.
Perciò, le linee guida altro non sono che un mezzo di informazione e aggiornamento del medico: uno “strumento attuativo del dovere istituzionale da parte del Ministero, di adottare strumenti di indirizzo e coordinamento generale per garantire l’adeguatezza delle scelte terapeutiche e l’osservanza delle cautele necessarie, ampliando la base scientifica informativa sulla cui scorta il medico è chiamato a compiere la scelta di cura”. 
Il Consiglio di Stato, nell’unica parte discutibile della sentenza, continua a ripetere la teoria - del resto ormai consolidata nella giurisprudenza amministrativa – per cui la discrezionalità tecnica delle autorità sanitarie è comunque soggetta allo scrutinio giudiziario. In realtà, la questione è scabrosa soprattutto perché non è chiaro in base a quali criteri, al di là del semplice controllo delle più grossolane violazioni della logica, un giudice possa contestare il merito di una valutazione tecnico-scientifica fatta da esperti. Il problema emerge chiaramente dalla formulazione ipocrita adottata dal Consiglio di Stato: “non si tratta, ovviamente, di sindacare il merito di scelte opinabili, ma di verificare se queste scelte siano assistite da una credibilità razionale supportata da valide leggi scientifiche e correttamente applicate al caso di specie”. Ma come si fa a  “verificare” se le scelte di merito degli scienziati e dei tecnici del Ministero siano “assistite da una credibilità razionale supportata da valide leggi scientifiche e correttamente applicate al caso di specie” se non appunto sostituendo il proprio giudizio nel merito a quello espresso dall’organo tecnico-scientifico? E che garanzia c’è che questo giudizio svolto da un giudice amministrativo, che nulla (per definizione) sa di scienza e leggi scientifiche, sia migliore di quello espresso dall’organo tecnico-scientifico, che invece quelle competenze le ha?
Per fortuna, in concreto il Consiglio di Stato è giunto alla conclusione corretta: ha condiviso le conclusioni di cui alle linee-guida della Circolare del Ministero, che insomma non si discostano affatto “dalle acquisizioni più recenti e condivise della scienza e della pratica clinica a livello nazionale e internazionale”.
Non si può non salutare con sollievo questa conclusione di una brutta vicenda, che ha visto, in una sorta di revanscismo contro la medicina scientifica, riproporsi con protervia tutte le vecchie fandonie reazionarie che avevano imperversato nei casi Di Bella e Stamina e che si speravano (evidentemente a torto) definitivamente debellate, per giungere quasi all’annientamento di uno strumento medico-scientifico essenziale quale sono le linee-guida. 
Per ora, il pericolo è stato scongiurato. Ma il rischio è sempre presente – perlomeno fin quando il sindacato dei giudici amministrativi potrà spingersi fino al merito delle decisioni di tipo tecnico-scientifico. Il seme degli abusi, a ben vedere, è sempre lì ed è ancora pronto a germinare di nuovo, quando le condizioni climatiche torneranno propizie.
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