Alcune vicende recenti (la famosa sentenza d’appello di Torino di qualche giorno fa che avrebbe – il condizionale è d’obbligo, come vedremo – sostenuto che uno stupro non sarebbe stato tale perché una donna, a quanto pare per di più ubriaca, avrebbe in qualche modo “invitato” l’uomo lasciando socchiusa una porta) suggeriscono di riparlare di precedenti sentenze in materia di violenza sessuale. Molti ricorderanno lo scandalo allorché, anni fa, molti giornali riferirono che, secondo la Cassazione, non poteva esserci violenza sessuale se la vittima indossava dei jeans. I sarcasmi si sprecarono, e ancora oggi quella sentenza viene citata dalla stampa e sui social come esempio della cultura maschilista e retrograda dei giudici italiani in materia di violenza sulle donne (si sono letti richiami a quella sentenza anche in riferimento alla recentissima vicenda che citavo all’inizio). Il problema però è che la sentenza in questione non diceva nulla del genere, e sarebbe bastato leggerla per capirlo. Ma nessuno, a cominciare dai giornali che riportavano le parti “pruriginose” della sentenza, aveva letto la sentenza. Cioè la n. 1636 del 6.11.1998 della Cassazione penale. Vale quindi la pena andare a vedere cosa effettivamente aveva detto la Cassazione in quella sentenza famosa. Il punto da cui partire è che la Cassazione è un giudice di riesame, che sostanzialmente rilegge la sentenza che viene impugnata (sentenza di appello, normalmente) alla luce dei motivi che vengono proposti dai ricorrenti. E’ un giudice che quindi, in genere, non riesamina i fatti della causa, ma si limita a riesaminare la sentenza, per vedere cioè se, sulla base dei suoi presupposti, giunge a conclusioni giuridicamente e logicamente corrette, oppure se è viziata. Si trattava di una sentenza di appello che aveva condannato un signore (dall’età non precisata) per lo stupro di una ragazza diciottenne. La Cassazione annulla la sentenza di appello, con rinvio (cioè rinviandola alla Corte d’Appello perché emetta una nuova sentenza sulla causa), per vizio di motivazione: le risultanze processuali, così come riportate nella sentenza a sostegno, non giustificavano la condanna perché non erano tali da dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio la colpevolezza dell’imputato. Notate che la Cassazione NON dice che l’imputato andasse assolto: dice invece che la condanna andava argomentata meglio. Scrive la Cassazione:
E’ certo che a carico dell’imputato sussistono le reiterate accuse formulate dalla P. Ma, considerate le proteste di innocenza dell’imputato, il quale ha sostenuto che la ragazza era stata consenziente al rapporto sessuale, la Corte di merito avrebbe dovuto procedere ad una rigorosa analisi in ordine alla attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese dalla P., mentre invece ha affermato la colpevolezza dell’imputato valorizzando le circostanze di fatto che ben si conciliavano con la versione dei fatti rappresentata dal C. e minimizzando o ammettendo di valutare altre circostanze che mal si conciliano con la denunciata violenza carnale.
In altri termini, dice la Cassazione, da una parte l'accusa non basta, perché occorrono le prove; d'altra parte, il giudice d’appello aveva fatto cherry-picking, cioè aveva valorizzato solo le risultanze probatorie compatibili con l’accusa, ignorando quelle che invece la contraddicevano. Per esempio, la sentenza d’appello aveva sostenuto che
le dichiarazioni rese dalla P. sono da ritenersi attendibili perché costei non aveva motivo alcuno per muovere contro il C. una accusa calunniosa.
Ma la tesi viene respinta come semplicistica dalla Cassazione, secondo cui, invece, la ragazza ben potrebbe aver avuto ragioni validissime per formulare un’accusa falsa. Inoltre, non c’erano segni di “colluttazione” sul corpo della ragazza. Quanto ai jeans, poi, la Cassazione scrive testualmente quanto segue:
Parimenti censurabile è la sentenza allorché afferma che la P. fu realmente vittima della denunciata violenza carnale dato che è certo che durante l’amplesso aveva i jeans tolti soltanto in parte mentre se fosse stata consenziente al rapporto carnale avrebbe tolto del tutto i pantaloni che indossava. Un tale rilievo non può condividersi perché sarebbe stato assai singolare che in pieno giorno (il fatto avvenne verso le ore 12-12,30), in una zona che seppur isolata non era preclusa al transito di persone, la P. si denudasse del tutto perché era consenziente all’amplesso.
Deve poi rilevarsi che è un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans di una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa.
Come vedete, quello sui jeans è un mero inciso, che non ha alcuna importanza nell’iter decisionale della Cassazione: la parte rilevante, per quanto riguarda i jeans, è quella che sostiene che il semplice fatto che i jeans fossero solo in parte tolti non costituisce prova di violenza. Chi è interessato a leggere l’intera sentenza la trova qui: https://www.altalex.com/documents/news/2007/04/04/cassazione-penale-sentenza-06-11-1998-n-1636 . Vicende del genere, come ha ben scritto da ultimo Giandomenico Caiazza, insegnano che in Italia a far scandalo sono, guarda caso, sempre e solo le sentenze di assoluzione, mai quelle di condanna: ma a volte, e anzi spesso, sono proprio le sentenze di condanna quelle aberranti. Segno di un'opinione pubblica non esattamente matura in tema di garanzie processuali, se non decisamente forcaiola. Io mi limito a ricordare una cosa importante: che, per poter criticare sensatamente una sentenza, è fondamentale, come minimo, averla letta, senza limitarsi a leggere quel che riportano i giornali – che sono ahimé spesso i primi a non leggere le sentenze (anche perché magari ne parlano prima ancora che le motivazioni vengano pubblicate) o a non capirle.
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