Finalmente sono state depositate le sentenze della Corte Costituzionale sui referendum e possiamo quindi (provare a) capire perché non sono stati ammessi i referendum più attesi: quello sull’eutanasia, quello sulla coltivazione della cannabis e quello sulla responsabilità civile dei magistrati.
Le tre sentenze hanno in comune un atteggiamento fondamentale: l’idea cioè che, per la complessità della disciplina, per la rilevanza delle norme da abrogare, e  per i limiti oggettivamente imposti dalla tecnica (il c.d. “ritaglio”) impiegata nel referendum abrogativo, quest’ultimo non sia possibile per queste materie e sia invece necessario l’intervento del legislatore.
Il referendum sull’eutanasia non è stato ammesso (sentenza 50/22) perché il suo eventuale successo (si trattava di abrogare parte dell’art. 579 c.p., sull’omicidio del consenziente) avrebbe esteso la non punibilità dell’omicidio del consenziente oltre i casi individuati dalla sentenza 242/2019 e dall’ordinanza 207/2018 (entrambe emesse nel c.d. caso DJ Fabo), in altri termini al di là della categoria delle persone affette da malattie gravi e irreversibili. In quel famoso precedente, che peraltro – notate – riguardava un caso di aiuto o assistenza al suicidio e non già di omicidio del consenziente (e in cui l’estensore era il medesimo della sentenza odierna), la Corte Costituzionale aveva individuato una “cintura di protezione”, da mantenere assolutamente intangibile, intorno al diritto alla vita. Ebbene, secondo la Corte, la “liberalizzazione” dell’omicidio del consenziente a seguito del referendum sarebbe stata totale, prescindendo cioè dalle motivazioni che possono indurre a chiedere la propria morte, dalla qualità dei soggetti coinvolti e perfino  da sufficienti garanzie di autonomia del consenso (non indotto, ad esempio, da “errore spontaneo”), non ricomprese nei criteri di validità di cui all’ultimo comma dell’art. 579 c.p.
La Corte ritiene che questo non sia accettabile, dato il valore “privilegiato”,  inviolabile del diritto alla vita: se non esiste un “dovere di vivere a tutti i costi”, non è però nemmeno ammissibile una disciplina che, “in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale”, ignori “le condizioni concrete di disagio o abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite”; bisogna cioè guardare alle ragioni concrete che possono portare le persone alla disperazione, e garantire che le decisioni siano in ogni caso, quanto meno, “adeguatamente ponderate”. La norma oggetto del quesito dunque ha natura di norma “costituzionalmente necessaria” e di conseguenza non può essere assoggettata a referendum abrogativo.
La pronuncia ha comprensibilmente lasciato l’amaro in bocca ai promotori e a tutti i cittadini che avevano firmato per il referendum.  Non si può negare che la sentenza sia perfettamente conforme ai precedenti. E tuttavia, rimane da chiedersi come mai l’ampiezza di intervento che la Corte Costituzionale tradizionalmente si (auto)riconosce nelle sue pronunce di illegittimità costituzionale non possa poi essere analogamente utilizzata anche a proposito dei referendum abrogativi. Ad esempio,  la Corte, nel dichiarare costituzionalmente illegittimo in parte l’art. 580 c.p. (appunto nel caso DJ Fabo), ha stabilito che ogni eventuale lacuna sarebbe stata adeguatamente integrata dalle norme dettate in tema di disposizioni anticipate di trattamento (L. n. 219/2017), che ovviamente col suicidio assistito c’entrano ben poco. Perché una analoga larghezza di strumenti non viene impiegata dalla Corte anche per il referendum sull’eutanasia?
La sentenza n. 49/22 è quella sulla responsabilità civile dei magistrati. La motivazione del rigetto qui è duplice. Da un lato, la Corte ritiene il quesito “manipolativo e creativo, e non meramente abrogativo”: il sistema vigente, su cui il quesito referendario andrebbe a incidere, prevede una azione diretta del danneggiato contro lo Stato, e solo in seconda battuta, in caso di soccombenza, una azione di rivalsa (dello Stato) nei confronti del magistrato. Il quesito referendario ha l’ambizione di “introdurre una disciplina giuridica nuova, mai voluta dal legislatore, e perciò frutto di una manipolazione creativa”. Infatti, l’effetto abrogativo del referendum “può portare (come ha più volte portato nella storia repubblicana) anche a importanti sviluppi normativi, ma solo ove ciò derivi dalla riespansione di principi generali dell’ordinamento o di principi già contenuti nei testi sottoposti ad abrogazione parziale”. Ma non sarebbe questo il caso, dice la Consulta, perché nel sistema non esiste alcuna ipotesi di azione diretta contro il magistrato; non solo, ma anzi, in più occasioni si è stabilito che la responsabilità civile dei magistrati deve essere sottoposta “a condizioni e limiti del tutto peculiari”, a tutela delle guarentigie di autonomia e indipendenza della magistratura. Come ha osservato Guzzetta, questo motivo di rigetto è contrario a quanto la Corte aveva concluso nella sentenza n. 26/1987 (che aveva ammesso un referendum sulla responsabilità dei magistrati anche se, proprio come oggi, non sussisteva alcuna norma che si potesse “riespandere” dopo l’abrogazione).
Dall’altro lato, il quesito risulterebbe poco chiaro e ambiguo, e in più ingannevole, in quanto non sarebbe comunque idoneo a realizzare il suo fine, cioè “dar vita a un’autonoma azione risarcitoria, direttamente esperibile verso il magistrato”, perché la tecnica del ritaglio non consente, in questo caso, di introdurre una azione risarcitoria diretta, che non è prevista dalla normativa incisa dal referendum. Insieme a altri vizi minori (non tutti perspicui), la Corte ritiene in conclusione che  il quesito sia inammissibile anche perché non garantisce “al popolo, nell’esercizio del suo potere sovrano, la possibilità di una scelta chiara”.
L’ultima sentenza, la n. 51/2022, riguarda il referendum sulla coltivazione della cannabis. E’ difficile riassumere la normativa incisa dal referendum (si tratta del D.P.R. n. 309/1990, T.U. sugli stupefacenti), trattandosi di norme su cui vi sono stati plurimi interventi sia del legislatore sia della stessa Consulta, e per conseguenza è quasi impossibile riassumere il ragionamento seguito dai giudici costituzionali. In breve, l’intento del referendum era quello di depenalizzare la coltivazione di cannabis. I promotori sostenevano che l’area della non punibilità sarebbe andata a coincidere con quella della coltivazione “di minime dimensioni in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile… appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”, come richiesto da una importante sentenza della Cassazione (SS.UU.PP., n. 12348/2020). Ma la Consulta obietta che questa limitazione non risulta dal quesito referendario, che in realtà depenalizzerebbe ogni tipo di coltivazione. Per di più, secondo la Corte il riferimento del comitato promotore alla cannabis sarebbe errato, dato che la norma incisa fa riferimento a delle tabelle, cioè degli elenchi, di sostanze che includono le droghe pesanti, ma non la cannabis (inclusa in un’altra tabella). Il che sarebbe anche in contrasto con i trattati internazionali, che impegnano l’Italia a perseguire la coltivazione di diverse piante da stupefacenti, tra cui anche la cannabis. Per di più, il quesito referendario sarebbe anche inutile, in quanto un’altra norma, non incisa dal quesito (e cioè l’art. 28 del T.U. stupefacenti ) punisce anch’essa la coltivazione delle piante da stupefacenti, inclusa la cannabis. Pertanto, il quesito sarebbe complessivamente fuorviante per l’elettore. 
La questione è talmente complicata che è difficile esprimersi con qualche certezza. È possibile che il comitato promotore abbia peccato di leggerezza nella redazione del quesito.
Certamente, alla luce di questa impressionante tornata di giudizi della Corte Costituzionale, l’impressione è che lo spazio di agibilità del referendum abrogativo si sia considerevolmente ridotto, per quanto all’esito di una evoluzione giurisprudenziale non breve, e altrettanto certamente questo effetto non pare conforme all’intento iniziale dei Padri Costituenti. Sarebbe quindi auspicabile un intervento del legislatore (costituzionale) sull’intera materia del giudizio di ammissibilità.

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