Si fa di nuovo un gran parlare dell’aborto, specie con riferimento a quel che succede negli USA.
Ma siamo sicuri di sapere come è regolato l’aborto qui da noi, in Italia?
I più vecchi  sanno o ricordano che l’aborto è stato introdotto in Italia più di 40 anni fa, con la Legge n. 194 del 22.5.1978, da una maggioranza variegata che praticamente comprendeva tutto l’arco costituzionale, tranne la DC e i fascisti. Poi la legge è stata confermata in occasione di un referendum abrogativo nel 1981, il che in teoria la renderebbe una legge politicamente molto forte. Ad oggi, la legge 194 sembra effettivamente solida; ma quel che è successo in America insegna a non sentirsi mai tranquilli - e comunque, come vedremo, la 194 ha già di per sé i suoi problemi.
La legge 194 interveniva in un contesto in cui l’aborto era reato (un crimine “contro la stirpe”). Ma la 194, anche per via della sua maggioranza eterogenea, è un testo dalle premesse a dir poco confuse.
L’art. 1 ad esempio dice: 

Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite

Qui, come vedete, da un lato si richiama la “procreazione cosciente e responsabile”, ma dall’altro lato si parla di “valore  sociale della maternità” e di “tutela della vita umana dal suo inizio”, oltre l'ammonimento che l’aborto non deve essere un “mezzo di controllo delle nascite”. Si tratta di premesse potenzialmente contraddittorie.
Dopo gli artt. 2 e 3 che trattano dei Consultori  familiari (che in teoria dovrebbero sia assistere la donna informandola dei suoi diritti, sia “contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”), l’art. 4 tratta finalmente dell’aborto vero e proprio.
Ecco l’art. 4:

Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell’articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405 o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia.

L’aborto insomma è consentito, in generale, entro i primi 90 giorni della gravidanza (ci sono delle eccezioni, come vedremo), e, a quanto parrebbe dal tenore letterale, solo se ci sono circostanze oggettive per cui portare a termine la gravidanza determinerebbe rischi gravi per la donna (per la salute fisica o psichica, per la salute del nascituro o per le condizioni socio/economico/familiari della donna). Non sembrerebbe trattarsi, cioè, di un diritto pieno e incondizionato.
Ma l’art. 5 interviene a chiarire questo punto. Dopo aver spiegato che i Consultori familiari e le strutture socio-sanitarie esistenti devono caso per caso “esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta” la situazione per vedere se mai è possibile indurla a portare a termine la gravidanza, negli ultimi due commi stabilisce quanto segue:

Quando il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l’urgenza. Con tale certificato la donna stessa può presentarsi ad una delle sedi autorizzate a praticare la interruzione della gravidanza.

Se non viene riscontrato il caso di urgenza, al termine dell’incontro il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza sulla base delle circostanze di cui all’articolo 4, le rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i sette giorni, la donna può presentarsi, per ottenere la interruzione della gravidanza, sulla base del documento rilasciatole ai sensi del presente comma, presso una delle sedi autorizzate.

Come vedete, quindi, se il medico incaricato dal Consultorio o dalla struttura socio-sanitaria preposta ad assistere la donna riscontra che le circostanze di cui all’art. 4 esistono, no problem: rilascia il certificato e la donna può abortire. Però, se non riscontra le circostanze in oggetto, non è che succeda chissà cosa: le rilascia un documento di tenore diverso, che le impone in sostanza una attesa di sette giorni. Se dopo i sette giorni la donna vuole ugualmente abortire, può farlo. Dal che si deduce che, nonostante le affermazioni in contrario dell’art. 4, quello ad abortire è effettivamente un diritto pieno, almeno nei primi 90 giorni.

Oltre i 90 giorni l’aborto può ugualmente avvenire, ma solo se ricorrono i casi elencati nell’art. 6 (grave pericolo per la vita della donna, o processi patologici, anche relativi a gravi anomalie o malformazioni del nascituro che possano mettere gravemente in pericolo la salute fisica o psichica della donna – in quest’ultimo caso però, notate, solo se non c’è possibilità di vita autonoma per il feto) e solo se il medico competente li accerta, altrimenti no.

L’interruzione della gravidanza può essere praticata solo in centri ospedalieri o sanitari autorizzati (art. 8). L’aborto che non avviene secondo le modalità previste dalla 194 è un reato (art. 19).

Infine, la legge prevede la famosa obiezione di coscienza da parte del personale sanitario e ausiliare (art. 9). Deve essere fatta per iscritto e può essere sempre revocata. Essa esime chi la fa dal “compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza” ma non dall’assistenza pre- e post- intervento; inoltre, non si può opporre l’obiezione di coscienza ai casi in cui l’intervento del personale obiettore è necessario “per salvare la vita della donna in imminente pericolo”. L’o.d.c. si intende revocata se chi l’ha fatta partecipa a interventi abortivi. Inoltre, l’art. 8 stabilisce che 

Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale.

La sostanza della disciplina dell’aborto, in termini di diritto, è tutta qui: entro le prime 12 settimane, esiste un (sostanziale) diritto pieno ad abortire; dopo i 90 giorni, l’aborto ha essenzialmente finalità mediche ed è limitato a certe ipotesi; l’aborto è pienamente gratuito; si richiede per accedervi di espletare alcune procedure burocratiche, e inoltre l’aborto è consentito solo in certe strutture sanitarie, non in tutte; infine, al personale sanitario e ausiliario è consentita l’obiezione di coscienza per quanto riguarda l’intervento abortivo (ma non dall’assistenza pre- e post-intervento, e non nei casi di urgenza), ma l’obiezione non deve limitare l’accesso all’aborto nella singola struttura..
OK: ma in pratica?
In pratica, si è assistito a una moltiplicazione delle obiezioni di coscienza (in alcune Regioni, siamo all’incirca al 100% di ginecologi obiettori; i dati esatti non si conoscono ancora, data l’omertà degli uffici preposti, nonostante i meritori sforzi di Chiara Lalli e Sonia Montegiove), il che, contrariamente a quanto stabilito dalla legge, in alcune Regioni rende praticamente impossibile abortire. Inoltre, l’iter burocratico, data l’evidente ostilità di parte dell’apparato, ha trasformato l’accesso all’aborto in una specie di gara a ostacoli, data anche la scarsità di fondi e quindi anche di sedi dei consultori e degli altri organismi che dovrebbero assistere le donne. 
In altre parole, le premesse poco chiare della 194 si sono trasformate in una politica di scarsa attenzione quando non di aperta ostilità per il diritto all’aborto, pur legislativamente riconosciuto e più volte confermato dalla Corte Costituzionale.
Anche da noi, insomma, c’è ancora parecchio da fare.

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